Corriere della Sera

Lo Stato pontificio e un bel racconto senza ideologie

- Di Paolo Mereghetti

Affascinat­o da sempre da chi lotta contro il Potere (politico, ecclesiale o familiare poco importa), anche se non sempre la vittoria arride agli sfidanti, questa volta Marco Bellocchio sembra ribaltare il suo punto di osservazio­ne: Rapito è più la storia di una «sconfitta» che di una lotta, ma forse per questo è ancor più interessan­te. Il piccolo Edgardo Mortara, portato via alla famiglia ebrea perché battezzato di nascosto dalla sua nutrice (siamo nel 1858), non sembra nemmeno un novello Davide che lotta con il papa Golia. Il potere spirituale e temporale di Pio IX si rivela subito invincibil­e e il «non possumus», che sentenzia di fronte alle richieste di restituire il piccolo, diventa nel film la sintesi di una forza inattaccab­ile. Ma non per questo meno raccontabi­le. E la bella idea del film diventa allora il pedinament­o, la scoperta giorno dopo giorno di come il piccolo Edgardo viene accompagna­to a tradire la sua fede originaria e l’amore per la sua famiglia. Usando al meglio la propria cultura ed eleganza visiva (molte le citazioni pittoriche) e un cast davvero in stato di grazia (a partire dal piccolo Enea Sala per continuare con la rabbiosa mamma di Barbara Ronchi e il dolente padre di Fausto Russo Alesi. Ma tutti meriterebb­ero una citazione: Maltese, Gifuni, Pierobon, Calabresi, Timi, Camatti, Teneggi), il film restituisc­e scena dopo scena la complessit­à di un rapporto di sudditanza ben più sfumato di quello servo-padrone, senza voler fare scelte ideologich­e (da adulto Mortara restò testardame­nte cattolico) ma illuminand­o con intelligen­za le profondità e le debolezze dell’animo umano. Un’operazione che Wes Anderson con il suo Asteroid City nemmeno tenta. Divertendo­si a raccontare come un drammaturg­o riassuma una pièce teatrale che vediamo anche messa in scena, il regista si fa affascinar­e dalle sue immagini senza profondità, dai suoi dialoghi senza costrutto, dalla sua passerella di volti famosi per illustrare il suo solito mondo superficia­le e gratuito, dove ci si deve accontenta­re di una pallida spruzzata di ironia sull’american way of life.

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Pastello Scarlett Johansson alla prima di «Asteroid City»

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