La speranza appesa a una foto «Mio fratello risulta disperso ma lo cerco ancora tra i feriti»
Mohamed, egiziano d’Italia, in coda a Kalamata per il test del Dna
Un foglietto stropicciato nei j eans. Un numero scritto a penna rossa. Il 20. Sono le tre del pomeriggio e nell’ufficio della guardia costiera di Kalamata è appena entrato il 12. « Ci stanno mettendo un’infinità di tempo». I numeri scandiscono la coda dei familiari per il prelievo di Dna: per verificare se c’è una corrispondenza col profilo genetico di uno dei 78 cadaveri recuperati in mare. Mohamed, egiziano, 23 anni, arrivato qui da Firenze, sulla barca affondata aveva suo fratello Amgad, 20 anni. Prima del Dna, che è necessario per identificare un deceduto, Mohamed ha un’altra speranza. Tira fuori il cellulare: «Devo capire se è lui». Mostra una foto. Un uomo in primo p i a n o su un l e t to d e l - l’ospedale di Kalamata. È uno dei 104 sopravvissuti al naufragio. Una grossa maschera per l’ossigeno sul volto. Un occhio un po’ gonfio. «Questo è uno dei superstiti. Potrebbe essere mio fratello, ma non si riconosce bene, non sono sicuro».
L’ospedale non dà informazioni?
«Questa persona non è più in ospedale, è stata dimessa e portata nel centro per migranti di Malakasa, vicino ad Atene».
C’è una lista dei sopravvissuti, ha controllato?
«Me l’hanno fatta consultare, ma il nome di mio fratello non c’è».
Perché ha la speranza che sia vivo?
«Perché molti quando vengono recuperati in mare danno un nome falso, o non proprio esatto. Per preoccupazione. Per paura. O magari hanno sbagliato a scrivere».
Ha mostrato l a foto alla guardia costiera?
«Sì, mi hanno risposto che loro non riescono a contattare i l campo. E con l a foto non possono aiutarmi. Per questo non so cosa fare: devo aspettare qui per lasciare il Dna, ma voglio andare in quel centro per capire se quello in foto è mio fratello».
Lei da quanto vive in Italia?
« Da quando avevo 15 anni. Sono arrivato con un viaggio come questo. Sono stato molti anni in comunità a Milano, ho studiato e sono riuscito a prendere la terza media. Ora lavoro».
Suo fratello voleva fare lo stesso percorso?
«Sì, siamo di un villaggio vicino Rosetta. In Egitto, in questi anni, le cose sono peggiorate tanto».
Accanto a Mohamed c’è un amico che l o accompagna. Racconta che lui la traversata sui barconi nel Mediterraneo l ’ ha fatta tre volte; l e prime due è stato rimandato in Egitto. Ora ha i documenti e un lavoro in regola: « Se fai l’edilizia, per un’intera giornata in Egitto prendi la paga di un’ora in Italia. Dieci euro, quando va bene. Spesso meno. E un chilo di carne là costa più di dieci euro, ecco perché i r agazzi continuano a partire. In Italia se ti comporti bene, impari la lingua e comprendi la mentalità, puoi fare una buona vita».
Cosa farete ora?
« Dentro i l campo di Malakasa c’è un ragazzo siriano che è l’unico che ha un telefono. Non chiedete i l perché, non lo sappiamo. Gli abbiamo mandato la foto dell’ospedale, per vedere se riconosce qualcuno tra quelli che sono là. Vogliamo solo sapere se è vivo, poi non chiederemo più niente».
Durante questa conversazione, Mohamed riceve un paio di chiamate dei genitori. Quando se ne va, dal campo dei sopravvissuti a Malakasa non è ancora arrivata una risposta sulla foto.