Walser, un’anima tedesca
1927-2023 Prima a sinistra, poi su posizioni conservatrici, aveva fatto discutere contestando l’«uso politico» della Shoah Addio a uno scrittore di intensa spiritualità, spesso al centro di aspre polemiche
Aveva sempre fatto discutere, non lasciava indifferenti. Il romanziere tedesco Martin Walser, scomparso ieri all’età di 96 anni, non era noto solo per la qualità letteraria delle sue opere, secondo alcuni superiori sotto questo profilo rispetto a quelle del premio Nobel Günter Grass, ma anche per il modo spesso provocatorio in cui era intervenuto nel dibattito pubblico.
Aveva fatto scalpore la sua dichiarazione del 1998, poi in parte ritrattata, contro l’uso della Shoah come «clava morale» fatta pesare in eterno sulla Germania. Ma anche in altre occasioni aveva appiccato il fuoco della polemica. Per esempio quando, nel romanzo del 2002 Morte di un critico (Sugarco, 2004) aveva attaccato con feroce sarcasmo il più autorevole recensore di letteratura e conduttore televisivo culturale della Germania, Marcel ReichRanicki.
Nei primi anni della sua carriera Walser si era schierato a sinistra, al fianco dei letterati riuniti nel Gruppo 47, fautori di un rinnovamento incisivo e molto severi verso la Germania federale dell’immediato dopoguerra, conservatrice, duramente anticomunista, concentrata sul compito della ricostruzione economica e propensa a rimuovere la memoria orribile del Terzo Reich.
Più tardi lo scrittore aveva assunto un atteggiamento moderato, polemizzando con i critici della riunificazione tedesca, che avrebbero voluto mantenere in vita una ipotetica Germania Est riformata dopo la caduta del Muro. Fino al controverso intervento contro l’insistenza sulla colpa collettiva tedesca, nel quale aveva definito il Memoriale dell’Olocausto di Berlino «un incubo grande come un campo di calcio».
Sempre, tuttavia, Walser aveva eretto un muro invalicabile nei confronti della destra xenofoba, bollata come «impudentemente anacronistica» in un’intervista a Danilo Taino per «la Lettura» del «Corriere» nel 2016, mentre aveva approvato l’apertura ai profughi siriani decisa dalla cancelliera Angela Merkel, scagliandosi contro i «tetri manifestanti» che agitavano la paura del diverso.
Nato a Wasserburg, sulla sponda tedesca del Lago di Costanza, il 24 marzo 1927, Walser aveva combattuto nei ranghi della Wehrmacht, mobilitato come quasi tutti gli adolescenti dell’epoca, durante la fase conclusiva del secondo conflitto mondiale. Risultava anche una sua iscrizione al Partito nazionalsocialista nel 1944. Lui sosteneva che fosse avvenuta d’ufficio, ma non aveva convinto tutti.
Solo uno dei suoi romanzi peraltro, Una zampillante fontana del 1998 (Sugarco, 2008), descriveva la vita sotto il regime di Adolf Hitler attraverso gli occhi del giovane Johann, suo alter ego. Gli era stato rimproverato di non aver parlato in quella sede di Auschwitz e Walser aveva replicato rivendicando «la prospettiva del protagonista». A suo avviso non si poteva «raccontare Johann con il sapere di oggi».
Laureatosi nel 1951 con una tesi su Franz Kafka, Walser si era impiegato alla radio-televisione pubblica del Baden-Württemberg e nel 1953 aveva preso a collaborare con il Gruppo 47 (dall’anno 1947 in cui era stato costituito), con personalità del calibro di Heinrich Böll, Günter Grass, Friedrich Dürrenmatt. Per la rivista «Kursbuch», fondata da Hans Magnus Enzensberger, aveva commentato il primo processo tenuto nella Repubblica federale per i crimini di Auschwitz, negli anni Sessanta. All’epoca Walser partecipava con entusiasmo alle battaglie della sinistra, in particolare contro la guerra americana in Vietnam. Proprio per protesta contro il conflitto in Indocina, aveva declinato l’invito rivolto a vari membri del Gruppo 47 per un incontro all’Università di Princeton nel 1966.
Sul versante letterario, dopo aver pubblicato alcuni racconti, Walser si era affermato nel 1957 con il romanzo Matrimoni a Philippsburg (Feltrinelli, 1962) e aveva proseguito con altre opere apprezzate dal pubblico e dai critici. Il suo successo più importante, Un cavallo in fuga, era uscito nel 1978 (Garzanti, 1980) e in tutto il mondo aveva venduto circa un milione di copie. Un risultato impressionante per un autore della scrittura non facilissima, anzi piuttosto sofisticata. Ma anche altri suoi libri avevano scalato le classifiche.
Con il tempo le tematiche affrontate nei romanzi di Walser erano passate da forme di critica sociale verso il consumismo a un approccio più introspettivo. Per esempio aveva affrontato in ben quattro libri un argomento delicato come l’«amore asimmetrico» tra persone di età molto differente. L’ultimo di quei romanzi, Un uomo che ama del 2008 (Sugarco, 2010), aveva preso di petto il più grande mito della letteratura tedesca, Johann Wolfgang Goethe, descrivendo la sua passione infelice di vedovo ultrasettantenne per una ragazza di 19 anni, Ulrike von Levetzow.
Il periodo in cui Walser aveva fatto più parlare di sé era stato quello trascorso fra l’intervento del 1998 su quello che considerava l’uso intimidatorio di Auschwitz contro la Germania e la messa alla berlina di Reich-Ranicki (tra l’altro un ebreo sfuggito alla Shoah), scelte che gli avevano attirato sospetti di antisemitismo. Forse anche per questo nel 2014 aveva voluto mettere le cose in chiaro e aveva definito l’Olocausto un crimine inespiabile in un saggio sullo scrittore yiddish Sholem Yankev Abramovic.
Un dato caratterizzante della produzione letteraria più recente di Walser è l’attenzione per la dimensione spirituale e il pensiero teologico. Già nel 1981 aveva scritto che «lo sviluppo del linguaggio porta del tutto spontaneamente alla creazione di qualcosa come Dio». Per il romanzo La cavalcata del sangue del 2011 (Sugarco, 2014), in cui si insiste sul concetto che la bellezza rimanda alla verità, aveva forgiato un protagonista, Percy Anton Schlugen, che per molti versi, a cominciare dal presunto concepimento virginale, si presenta come «un moderno Gesù», con evidenti richiami anche a Parsifal e a personaggi di Fëdor Dostoevskij.
Molto importante, sotto questo profilo, il discorso tenuto da Walser ad Harvard il 9 novembre 2011, nel quale aveva sottolineato il valore del concetto di «giustificazione». Insofferente verso un mondo intellettuale adagiato nella convinzione che basti «aver ragione» sulla base di una superficiale «correttezza politica» fondata sull’«addomesticamento della coscienza», in quel testo (tradotto in Italia dalle edizioni Ariele nel 2016 con il titolo Sulla giustificazione) si era appellato all’autorità del grande teologo Karl Barth per evidenziare come l’esperienza umana rifletta sempre un vuoto di fondo, un’esigenza di giustificazione destinata a non placarsi mai. Non basta, osservava Walser, affermare che Dio non c’è. Bisogna onestamente ammettere che ci manca.
Il caso
Nel libro «Morte di un critico» aveva attaccato molto duramente Marcel Reich-Ranicki