Volponi, poeta e fustigatore
Ha narrato l’alienazione della modernità Perché rileggere un gigante del Novecento
Sono passati quasi trent’anni dalla morte di Paolo Volponi, saranno cent’anni dalla sua nascita il 6 febbraio 2024, e più corre il tempo più sembra incredibile che sia potuto esistere uno scrittore capace di pubblicare, tra il 1962 e il 1991, romanzi come Memoriale, Corporale, Sipario ducale, Le mosche del capitale infine La strada per Roma. Di scriverli trovando più di un lettore capace di lasciarsi trascinare dall’impetuoso coraggio sperimentale e utopico dell’autore. Mettete un libro che comincia così: «Il mio pensiero e la mia materia, le lacerazioni che si producono all’interno, nel tracciato della mia macchina e nell’accensione dei diversi commutatori, mi tengono anche vicino alle cose e ai fatti che camminano intorno a me, nella mia casa e nella mia campagna e in questo pezzo di terra marchigiana dalla parte dell’Appennino, che viene chiamato la parrocchia di San Savino». È l’incipit de La macchina mondiale, il secondo libro di Volponi, uscito nel 1965. Dove il giovane contadino Anteo Crocioni è un visionario che immagina il mondo come smisurato organismo meccanico dai confini inconoscibili.
Sembra di essere dentro una distopia filmata da Kubrick: che sarà mai quella e di che commutatori si sta parlando? E di quali lacerazioni? Sono squarci interiori della coscienza? E cosa sono quelle cose e quei fatti dotati di gambe? Quei misteriosi fatti animati che ci camminano intorno? Bastano poche righe per capire che ci troviamo di fronte a uno scrittore «diverso», in cui coesistono varie spinte, naturali (intravediamo il suo paesaggio marchigiano) e irreali, realistiche e poetico-allucinatorie, meccanismi in apparenza materiali che diventano mostri del pensiero, ossessioni angosciose che incalzano da tutte le parti. In verità quelle opposte tensioni non convivono pacificamente: il carattere unico della prosa di Volponi è il suo farsi luogo di contrasto mentre racconta il contrasto, spazio dello scontro nel raccontare lo scontro: l’incarnazione in verbis del mondo e dei suoi rapporti di forza. Disse Volponi a proposito della Macchina: «Cominciando a scrivere questo libro, il mio pensiero, l’ingranaggio dei miei istinti, è toccato da tanti fatti vicini, reali e irreali, come da una polvere, anche se il mio disegno è di arrivare molto più avanti, lontano da me e dalle mie circostanze».
Un errore per difetto sarebbe, come spesso avviene, limitare Volponi al narratore politico della società industriale vissuta dall’interno come dirigente-intellettuale, per un ventennio a Ivrea a fianco di Adriano Olivetti e poi brevemente alla Fiat, da cui fu allontanato in seguito alle sue dichiarazioni in favore del Partito comunista. È vero che Volponi racconta con la forza di nessun altro l’alienazione della modernità capitalistica, ma dalla specola della fabbrica il suo discorso si apre all’umanità tout court, l’umanità nel suo rapporto con un potere cinico e solo apparentemente razionale. Il paradosso è che la possibilità di rivolta (coraggiosa e spesso fallimentare) è data a tanti suoi personaggi dalla patologia nevrotica e dal delirio, dalla loro potenzialità stravolgente e visionaria che li allontana dal sopruso dei simili e li avvicina alle cose e alla natura messe in scena come interlocutori attivi e umanizzati. In questa prospettiva la letteratura, proponendosi a sua volta come dissonanza e deformazione, posmacchina siede una superiore capacità conoscitiva e dunque etica pur tenendosi sempre lontanissima da tentazioni didascaliche. Del resto, Volponi non ha mai voluto semplificare la complessità: la sua opera anzi si presenta spesso olimpicamente (forse anche provocatoriamente) avversa a ogni banalizzazione stilistica e sintattica, affronta il caos del caotico mondo politicoindustriale con una violenza espressiva che non fa sconti al lettore. Persino un libro come Il sipario ducale, che quando uscì nel 1975 apparve ai più come un romanzo «tradizionale» nel confronto con il caotico e paranoico flusso di coscienza
joyciano-céliniano di Corporale (1974), all’orecchio del lettore di oggi, abituato a intrecci piani e linguaggi confortevoli spacciati per alta letteratura, può risultare «disturbante». Ambientato a Urbino, colloca nei giorni successivi all’esplosione di Piazza Fontana una storia parallela: quella di una coppia di anarchici antiunitari, il vecchio professor Subissoni e la sua compagna spagnola Vivés, magnifico personaggio femminile, e la grottesca vicenda di un giovane nobiluomo, gigantebambino (bamboccione?) che aspira a diventare signore della città.
In quel doppio delirio in terza persona troviamo tutto Volponi, le tinte aspre della narrazione dirompente mescolate con la riflessione saggistica di carattere storico-civile, la satira, il sarcasmo, la farneticazione, l’indignazione e all’invettiva pasoliniana sulla televisione («quell’occhio-mente di Ciclope aperto sul tempo e sulla vita»), gli excursus nell’amata pittura cinque-secentesca (Bronzino su tutti), il gusto per gli elenchi, le aperture liriche (i «succhi dell’espressività poetica» che secondo Giovanni Raboni irrorano la prosa volponiana). E come d’abitudine, i tormenti psicologici e ideologici dei personaggi trovano conforto nella solidarietà della natura, degli animali, degli oggetti, nell’anima simbiotica delle cose, gli alberi che salutano, i bicchieri che guardano interrogativi, le porte che sorridono, la neve che consola.
Il coraggio dell’utopia è il titolo di un convegno che nel 1996 riunì a Urbino diversi amici e studiosi per fare il punto sul narratore, sul poeta (splendido libro è Con testo a fronte), sul saggista (collaborò anche per anni al «Corriere»), sull’uomo d’industria e sul politico che nel 1983 fu eletto senatore nelle file del Pci e nel 1991 ha aderito al movimento di Rifondazione comunista. Come scrisse Massimo Raffaeli, presentando il volume che raccoglieva quegli interventi, si voleva riassumere con quelle due parole, una personalità complessa e in parte anche indecifrabile: «Il coraggio di una vocazione che poteva tradurre l’etica in rigorose istanze civili e l’utopia di chi leggendo i conflitti della realtà nazionale sapeva poi mutarli in istanze incandescenti, in occasioni di dibattito e proposta».
Uno degli apici della letteratura del secolo scorso è Le mosche del capitale (1989), che affronta la parabola (autobiografica) di Bruto Saraccini, un dirigente industriale democratico che si batte contro l’ottusità degli uomini di potere (le «mosche» del titolo): il libro suscitò polemiche, quasi si trattasse di un pamphlet sull’attualità, ma come sempre in Volponi lo sguardo feroce contro la contemporaneità stringente diventa, per forza di stile, di contaminazione e di furore espressionistico (intriso di furore ideologico), allegoria di un fallimento ben più ampio, il naufragio di un’idea di società civile fondata sull’eguaglianza della polis, sul lavoro, sull’armonia con l’ambiente. Un umanesimo laborioso uscito sconfitto invece dall’irruzione della tecnica computeristica e dell’intelligenza artificiale che non libera l’essere umano ma lo rende ancora più schiavo e alienato.
A proposito di incipit. Al lettore resistente si consiglia di aprire Le mosche del capitale e mettersi alle spalle di Saraccini per guardare dall’alto, con lui, la collina della grande città industriale. Ecco cosa vedrà in quella notte di febbraio senza luna, serena e piena di fantasmi: «Dormono tutti o quasi, e anche coloro che sono svegli giacciono smemorati e persi: fermi uomini animali edifici; perfino le vie i quartieri i prati in fondo, le ultime periferie ancora fuori della città, i campi agricoli intorno ai fossati e alle sponde del fiume; anche il fiume da quella parte è invisibile, coperto dalla notte se non dal sonno. Buie anche le grandi antenne delle radiocomunicazioni e dei radar della collina. È un rumore del sonno quello di un tram notturno che striscia tra gli edifici del centro. Gli uomini le famiglie i custodi i soldati le guardie gli ufficiali gli studenti dormono, ma dormono anche gli operai: e non si sentono nemmeno quelli dei turni di notte, nemmeno quelli dei turni di guardia di ronda tra le schiere dei reparti o sotto le volte dei magazzini. Quasi tutti dormono sotto l’effetto del Valium, del Tavor e del Roipnol.
«Ma dormono anche gli impianti, i forni, le condutture, dormono i nastri trasportatori delle scale mobili che depositano le pozioni chimiche nelle vasche della verniciatura o nei lavelli delle tempere. Dorme la stazione ferroviaria, dormono anche le farmacie notturne, le porte e le anticamere del pronto soccorso, dormono le banche: gli sportelli le scrivanie i cassetti le poste pneumatiche le grandi casseforti i locali blindati; dormono l’oro l’argento i titoli industriali; dormono le cambiali i certificati mobiliari i buoni del tesoro. Dormono i garzoni con le mani sul grembiule o dentro i sacchi di segatura. Dormono le prostitute i ladri gli sfruttatori le bande organizzate, i sardi e i calabresi; dormono i preti i poeti gli editori i giornalisti, dormono gli intellettuali; quanto caffè, alcool, fumo tra quelle ore. E mentre tutti dormono il valore aumenta, si accumula secondo per secondo all’aperto o dentro gli edifici.
«Dormono i calcolatori, ma non perdono il conto nei loro programmi. È un problema di ordine, efficienza, produzione».
Tanti i motivi per leggere e rileggere Volponi, per amare uno dei grandi narratori-poeti-trasfiguratori-fustigatori della modernità.
Dalla fabbrica il discorso si apre all’umanità nel suo rapporto con il potere