Una riflessione filosofica per risalire in superficie
Certo, non ho visto Nel fondo di Strehler del 1947, lo spettacolo che inaugurò la storia del Piccolo di Milano. Ma l’allestimento che il regista ne fece al Metastasio di Prato del 1970 e l’edizione televisiva che ne derivò, quelle sì, quelle le ho viste e le ricordo piuttosto bene. Vi erano chiarissimi due temi del teatro di Maksim Gor’kij e di quella sua meravigliosa commedia, I bassifondi — del 1902.
Il titolo rinviava al sottosuolo di Dostoevskij e i personaggi, in specie Luka, al vagabondo, o meglio al pellegrino: l’andare via di casa, mettersi nella strada, non fu questo l’ultimo tratto di vita di Tolstoj? L’attenzione di Strehler era rivolta tanto alla commedia quanto alla storia del teatro e alla società dei suoi anni. Pensava a Beckett, ogni naturalismo era allo sfinimento: ma i suoi pellegrini alla realtà rimanevano inchiodati: alla loro sofferenza, al loro desiderio di felicità. Meglio ancora: alla loro necessità di rivolta. Quaranta anni dopo, per celebrare la ricorrenza, il Piccolo invitò il Taganka di Mosca.
Anatolij Efros mise in scena una tutta diversa interpretazione della commedia di Gor’kij. Era come se un albero lo si vedesse da lontano, alto e irraggiungibile e ad esso avvicinandosi, il suo suono — la sua fioritura, lo stormire delle foglie — quasi si polverizzasse in un brusio di voci, di brevi grida di dolore. Gli uomini (i personaggi) erano indivisi, erano un tutt’uno. Dallo spettacolo si sprigionava una frenesia vitalistica (una piega di modernismo) in cui la soggettività non scomponeva l’ordine delle cose e piuttosto lo sollecitava nel plein air in cui erano immerse in pari misura azione e contemplazione (della vita e della morte).
Ancora diversa nel 2018 l’edizione del lituano Oskaras Korsunovas. Via il tocco di melodramma che scoprivamo nei personaggi di Efros ed ecco la commedia restituita al suo puro realismo — simile al film di Jean Renoir, quel Verso la vita del 1936.
Di Renoir vi era lo stesso umorismo, la stessa allegria nonostante tutto. Korsunovas aveva denudato la scena: non vi erano storie, conflitti, sacrifici: niente più che il desiderio della luce — risalire in superficie. Ed è là dove troviamo i personaggi di Emanuele Trevi, che ha lavorato alla riedizione del testo, L’albergo dei poveri, e di Massimo Popolizio, che della versione in scena all’Argentina (prodotta dal Teatro di Roma e dal Piccolo di Milano) oltre ad essere regista, è protagonista eccellente di Luka, il più filosofico di tutti i filosofici personaggi. Quell’essere risalito in superficie lo nota Alessandra Bernocco nel programma di sala: «Per essere credibili bisogna essere up. Sopra».
«Up» è proprio la cifra espressiva dei sedici indiscutibili attori. La verità di cui i personaggi parlano è qui la verità teatrale, «un gradino sopra la verosimiglianza». È l’espressionismo di fondo dello spettacolo, forse il suo limite. Ma anche il suo bello: è come una via di fuga, come apparire per non essere invisibili laggiù.
L’albergo dei poveri
Regia Massimo Popolizio ●●●●●●●●●● 7,5