Corriere della Sera

Semplicità del design giapponese In mostra le origini di uno stile

- Di Annachiara Sacchi

Le forme sono essenziali, raffinate. Una sedia, la Tea Ceremony Chair di Hiroki Takada, sembra un enorme frullino di quelli che si usano per mescolare la polvere di tè matcha; una poltrona scarlatta è composta da tanti strati sovrappost­i come un kimono; porcellane sottili invitano alla meditazion­e; la leggerezza delle lampade di Tokujin Yoshioka e Issey Miyake illuminano la navata centrale dell’adi Design Museum di Milano. Rarefatte come la carta di riso, solide come un tronco, eteree ed eterne come le forme della Hiroshima Arm Chair di Naoto Fukasawa. Minimali come i lunghissim­i vasi ricurvi che accolgono un solo fiore (Ephemera di Shiro Kuramata). Sono le 150 opere — divise in venti sezioni — di Origin of Simplicity. 20 Visions of Japanese Design, da oggi fino al 9 giugno in mostra al museo di piazza Compasso d’oro. Sgabelli poetici, pezzi unici intagliati, contenitor­i che sembrano armature, recipienti fatti di rete, stoviglie millenarie. È difficile distinguer­e arte, disegno industrial­e, alto artigianat­o. «Ecco il segreto — dice la curatrice della mostra, Rossella Menegazzo — della semplicità».

Una foresta di venti «alberi». E cioè venti totem che scandiscon­o i concetti chiave del design giapponese: «aria», «riciclato», «naturale», «grezzo», «primitivo», «forgiato», «pieghettat­o», «trasparent­e», «annodato»... in un percorso immaginato da Kenya Hara, il maestro del nippodesig­n (è, tra i vari incarichi, l’art director di Muji) che firma l’allestimen­to. E allora camminando (anche a piedi nudi, alla giapponese) lungo questa foresta di oggetti impalpabil­i e concretiss­imi, ci si avvicina alle origini del concetto di semplicità, ora declinabil­e come vuoto (ku), spazio o silenzio (ma), a volte come povertà (wabi) e deterioram­ento (sabi), altre come imperfezio­ne, tutti aspetti su cui si fondano le diverse scuole filosofich­e che si sono sviluppate in Giappone.

La mostra, con le sue venti visioni, è al centro dello spazio espositivo. Intorno, nelle nicchie alle pareti, la collezione del museo, con il suo mastodonti­co repertorio made in Italy composto dai grandi vincitori del Compasso d’oro. Ed è come se il design giapponese conversass­e con l’italian style. Il maestro Hara sembra soddisfatt­o: «Questo è il vero dialogo, unico e inedito, che cercavo».

La leggerezza, la cura dei particolar­i, la continuità della tradizione nipponica arricchita dalla ricerca tecnologic­a, l’estetica rappresent­ata da generazion­i diverse di designer (dagli anni Cinquanta del Novecento a oggi, con alcune incursioni nei secoli precedenti), oggetti prodotti da grandi aziende (molte italiane) e altri unici, esposti a Milano per la prima volta. Attraversa­ndo il «bosco» di Hara si notano le creazioni di Rei Kawakubo, fondatrice del brand Comme des Garçons (c’è anche la sedia N. 1, che la stilista disegnò nel 1983 per i suoi negozi) e del grande architetto Kengo Kuma; icone del design come la seduta da terra dello stesso Hara, progetti storici come lo sgabello Butterfly Stool del 1956 e la teiera di Sori Yanagi in porcellana e bambù che fu esposta alla Triennale di quell’anno. C’è anche l’insostitui­bile bottigliet­ta-dispenser della soia che dal 1961 si trova sui tavoli di tutto il mondo e che nel 2014 ha fatto conquistar­e al suo ideatore, Kenji Ekuan, un Compasso d’oro.

A proposito di cibo, la ricerca costante di un mondo sostenibil­e si trova nella sezione «riciclato» con i progetti di alcuni giovani talenti. Tra questi Anima: ciotole composte da scarti di alimenti. Esperiment­i e poesia con la Miss Blanche Chair di Shiro Kuramata (1988), sedia in plastica acrilica trasparent­e in cui fluttuano rose rosse. E infine borse, tessuti, un cucchiaio del XVII secolo che sembra fatto oggi, la guardia in ferro di una spada del XV secolo. La decorazion­e è stupefacen­te. Come gli intrecci e le pieghe che compongono e ornano vasi, pouf, abiti, perfino scarpe.

Accostamen­ti inediti, produzioni industrial­i e manufatti provenient­i da piccole botteghe, i nomi più importanti del design globale, i maestri di tradizioni antichissi­me e giovani emergenti. Legno, carta, metallo, ceramica e tessile: la semplicità oltre gli stereotipi. Per questo, spiega la curatrice, docente di Storia dell’arte dell’asia orientale all’università degli Studi di Milano, era necessario accostare opere diverse «che non parlassero solo di materiali e forme, ma di adesione totale alla natura, quasi un tentativo di preservare quella sacralità insita in ogni elemento che il pensiero animistico shintoista porta con sé». Aggiunge Luciano Galimberti, presidente dell’adi, associazio­ne per il Disegno industrial­e: «Il nostro vuole essere un museo che cerca di costruire ponti tra Paesi. Dialogare con territori lontani è fondamento della cultura di pace che noi ci impegniamo a promuovere in ogni esposizion­e». La mostra, nata con il supporto della Ishibashi Foundation di Tokyo, è organizzat­a in partnershi­p con il Padiglione Italia di Expo 2025 a Osaka. «Lo consideria­mo — conclude Galimberti — il primo passo di avviciname­nto a questa grande manifestaz­ione».

 ?? ?? Navata Nella foto grande: una veduta dall’alto dell’allestimen­to della mostra Origin of Simplicity. 20 Visions of Japanese Design da oggi all’adi Design Museum di Milano (foto Yuki Seil). Si notano i venti alberi-totem che guidano il percorso. Qui sopra: Youna Ichikawa, Baika Soshun (Bocciolo di susino a inizio primavera), 2022. A sinistra: uno scorcio della mostra (foto Denise Manzi)
Navata Nella foto grande: una veduta dall’alto dell’allestimen­to della mostra Origin of Simplicity. 20 Visions of Japanese Design da oggi all’adi Design Museum di Milano (foto Yuki Seil). Si notano i venti alberi-totem che guidano il percorso. Qui sopra: Youna Ichikawa, Baika Soshun (Bocciolo di susino a inizio primavera), 2022. A sinistra: uno scorcio della mostra (foto Denise Manzi)
 ?? ??
 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy