SE SAREMO MALVAGI HAMAS AVRÀ VINTO
Sopravvivere alla guerra e all’orrore mantenendo l’umanità: la forza della parola
Pensavo che avrei fatto lo psicologo. L’animo umano mi affascina e considero essenziale, addirittura nobile, aiutare chi soffre. Ma verso la fine della laurea triennale in Psicologia ho seguito anche un corso di scrittura. Emozioni che per anni avevano cercato una strada per uscire hanno trovato parole. Ho finito un racconto. Poi un altro. L’insegnante mi ha consigliato di provare a sottoporre il manoscritto alle case editrici e all’improvviso è diventato chiaro che dovevo scegliere fra continuare a studiare psicologia e terminare il libro. Dopo una notte in bianco in cui ho stilato, come mi ha insegnato mia madre, una tabella di pro e contro, ho deciso di fare il contrario di quello che emergeva dalla tabella e ho chiamato la segreteria del dipartimento di Psicologia alle otto del mattino per informare che ritiravo l’iscrizione al master, e da allora, ogni volta che tenevo una lezione a un gruppo di terapeuti, esordivo dicendo: voi siete la mia strada non presa, la porta girevole, la vita che avrei potuto avere e non avrò.
Ma ecco che negli ultimi mesi la porta ha fatto un altro giro e mi ritrovo a essere molto più terapeuta che scrittore, incontro gruppi di sfollati, famiglie di ostaggi, feriti, persone affette da disturbo post traumatico da stress, offro parole mie o li aiuto a trovare le loro, mi faccio entrare dentro il loro dolore, me lo porto addosso nel corpo, come un peso, i passi sono gravosi, a volte mi chiedo se non è troppo per me, forse non è un caso che non abbia scelto di fare lo psicologo, non ho epidermide io, altre mi domando: perché le persone si rivolgono a uno scrittore quando provano dolore, cosa si aspettano? E altre ancora mi chiedo: sto riuscendo a dare aiuto? Eppure continuo a dire sì, certo, a qualunque richiesta mi arrivi, perché dire no non è possibile.
I feriti
Sono arrivati all’incontro nel reparto ortopedia in sedia a rotelle, sette, feriti nella guerra. Uno senza una gamba. Uno senza una mano. Una con una benda enorme che le avvolgeva tutta la testa. Ho letto un racconto. Ogni tanto alzavo gli occhi per vedere come stavano. Avevano dolori. Sono abituato a parlare di fronte a persone sensibili. Ma qui si trattava di dolore fisico. Concreto. Gli si leggeva in volto che la sofferenza li stava tormentando. La ragazza bendata ha lasciato la stanza a metà lettura. Che fosse uscita per un’iniezione di antidolorifico?
Ho letto un secondo racconto e mentre leggevo ho saltato un passaggio che temevo potesse rappresentare un trigger. Non devi aggiungere altro dolore, mi sono detto. Non devi assolutamente aggiungere altro dolore. Poi ho chiesto se c’erano domande. Un ragazzo, con la gamba avviluppata da un poderoso tutore, ha alzato la mano e posto una domanda. Il tuo romanzo La simmetria dei desideri è basato su una storia vera? Dopo che ho risposto, ha continuato: «Ma quindi fino ad oggi non avete mai aperto i bigliettini su cui avevate scritto i vostri desideri?». Quando ho confermato che no, non li avevamo ancora aperti, ha insistito: «E a tuo avviso avete realizzato i vostri desideri? Tu, per esempio, sei soddisfatto?».
Continuava a fare domande, tutte riguardanti La simmetria dei desideri. Mentre rispondevo, i presenti si sono allontanati alla spicciolata per tornarsene nelle loro camere, nel reparto, finché non siamo rimasti solo lui e io. Alla fine abbiamo dovuto sgomberare anche noi perché stava per iniziare il torneo di dama.
Mentre rientravo a casa, mi sono chiesto se la mia presenza aveva giovato, se avevo per lo meno contribuito a distrarli. Forse avrei dovuto scegliere racconti diversi?
Qualche giorno dopo ho ricevuto da quel ragazzo un’email. Diceva che il nostro incontro gli aveva restituito il coraggio di scrivere che aveva perso da molti anni, e allegava alcune righe:
Mi torna in mente l’istruttore di surf, in Sri Lanka, che mi urla in un inglese smozzicato: prima guarda avanti verso l’orizzonte, solo dopo penserai alle gambe. Quanto aveva ragione, anche se non poteva saperlo. Adesso devo guardare avanti verso l’orizzonte, solo dopo penserò alle mie gambe.
La poesia
C’è un esercizio di scrittura che faccio in ogni spazio in cui entro da quando è iniziata la guerra.
Scriviamo una poesia insieme. Ognuno deve contribuire con un verso che inizia con le parole: Va bene se.
Va bene se piango
Va bene se non piango
Va bene se non seguo più le notizie.
Va bene se non ho visto i video del 7 ottobre. Va bene se ieri sono andato a ballare. Va bene se non prendo sonno per la preoccupazione.
Va bene se non ho voglia di sesso.
Va bene se tutto quello che cucino esce cattivo.
Va bene se sono vivo.
Va bene se ho paura.
Va bene se non sto bene.
Lo spazio si riempie di frasi. Il senso di colpa si trascina dietro senso di colpa che si trascina dietro altro senso di colpa. Le persone annuiscono quando qualcuno legge una frase in cui si identificano. Se siamo su Zoom, commentano le frasi con cui si identificano con dei cuoricini. Penso: forse proprio la clamorosa rivelazione che non sei l’unico a provare quello che provi è la redenzione che la letteratura può offrire in questo momento.
Gli «altri»
«Empatia per le persone di Gaza, è in grado di provarne?», mi chiede una giornalista tedesca.
Non è stato facile nei primi giorni, le rispondo la verità. La notizia che migliaia di abitanti di Gaza — non attivisti di Hamas — hanno partecipato agli stupri e ai saccheggi del 7 ottobre, ha chiuso il cuore davanti alla loro sofferenza per breve tempo.
Ma devo assolutamente continuare a credere che dall’altra parte ci sono esseri umani.
Ci vuole un primo piano. Devo scegliere una fotografia, entrarci dentro e non distogliere gli occhi. Ad esempio: bambini in fila per la distribuzione del cibo a Gaza. Tengono in mano secchielli di plastica colorati. Come quelli che si usano in spiaggia per giocare. Nei loro occhi mi sembra di leggere soprattutto sbalordimento.
Devo sollecitare tutta la mia empatia e riconoscere che dall’altra parte ci sono bambini e adulti che stanno soffrendo. Che hanno fame. Che non hanno più un tetto. Che hanno perso i loro cari in questa guerra.
Altrimenti diventerò malvagio e crudele come Hamas.
E diventare malvagi e crudeli come Hamas significa lasciar vincere Hamas.