EFFETTO DOMINO TRA I LEADER PER UNA SCELTA PREVEDIBILE
Raramente una candidatura europea è stata più prevedibile. E la solennità con la quale ieri il Pd ha annunciato quella di Elly Schlein riflette un rituale un po’ da vecchia sinistra. La segreteria che chiede unita alla segretaria di guidare il partito alle Europee è apparsa un modo un po’ contorto per ufficializzare una decisione probabilmente già presa; e accelerata dall’esigenza di compilare le liste elettorali senza creare troppe polemiche. L’ambizione è quella di trainare voti a sinistra, puntellando le percentuali del Pd e cercando voti tra il M5S e le altre forze d’opposizione.
Con un tocco di suspense si aggiunge che «le formule proposte sono diverse. Lei ne prende atto e ci ragiona». È un modo per velare le resistenze sulla scelta di correre ovunque, penalizzando le candidature femminili. Già sono circolati malumori nel partito. E promettono di riemergere. Ma la prima conseguenza sarà verosimilmente quella di creare un «effetto domino» nelle altre forze politiche. Da ieri diventa attesa anche la candidatura della premier Giorgia Meloni e del suo vice Antonio Tajani per FI, tuttora in incubazione.
Si vedrà se a cascata arriverà anche qualche altro leader. Il capo della Lega, Matteo Salvini, è fermo sul no. «Non mi candido. Continuerò a fare il ministro», ha dichiarato. E come lui ha promesso di non esserci Giuseppe Conte del M5S. «Non ci sarò e mi auguro che gli altri leader non ci siano... Non possiamo continuare ad ingannare i cittadini», ha anticipato nel gennaio scorso. «Non puoi dire loro “datemi il voto”, mentre Conte sa che nel Parlamento europeo non ci potrà andare perché è già deputato».
Sono motivazioni che promettono di rimbalzare nella campagna elettorale come ulteriore motivo di polemica sia col Pd, sia con la premier e con Tajani. Sul piano formale, la critica non fa una grinza. È chiaro che difficilmente i vertici del governo opteranno per un seggio a Bruxelles. E riesce difficile pensare che Schlein si candidi per trovare una via d’uscita europea in caso di sconfitta, come hanno suggerito maliziosamente i suoi avversari interni.
L’obiettivo è opposto: presentarsi per rimpolpare i consensi puntando sul traino della leadership. Nel «no» salviniano si indovina anche la consapevolezza che non potrà replicare il trionfo di cinque anni fa. Allora la Lega, al governo col M5S, si affermò con il 34,33 per cento; FdI era appena al 6,46. E il confronto col passato, il 9 giugno, rischia di essere impietoso. Ma anche il M5S sa di rischiare. Non è detto che replichi il 17,07 del 2019, quando il grillismo quasi dimezzò i voti presi nel 2018. Meglio, dunque, prepararsi a una campagna contro «l’inganno» altrui. Come minimo, sarà un alibi identitario.