Corriere della Sera

Sul treno con l’altro Singer

Russia, 1927: Israel Joshua, fratello maggiore del futuro Nobel, viaggia. E racconta

- di Giorgio Montefosch­i

Chi non vorrebbe — oggi — fare un passo indietro di un secolo per sedersi nel vagone ristorante, confortato da un buon tepore, del treno Berlino-Varsavia-Mosca, per ascoltare le conversazi­oni che si svolgono in varie lingue, con qualche parola di yiddish fra i chiassosi americani in cerca d’affari, il diplomatic­o polacco, i francesi, i russi e cinesi; o magari soltanto per guardare il paesaggio?

Israel Joshua Singer, fratello maggiore del futuro Premio Nobel Isaac Bashevis Singer, c’era su quel treno del 1927 che attraversa­va le sterminate pianure, la steppa, i boschi di betulle. Giovane intellettu­ale dal carattere difficile, imbevuto di cultura ebraica e socialismo, già era stato una prima volta in Russia, fuggendo dalla Polonia e dalla sua famiglia, nel 1918. Il treno, in quell’epoca, procedeva con la velocità delle lumache, e ogni tanto doveva fermarsi in qualche piccola stazione per permettere ai fuochisti di ricaricare la legna. Ma a Mosca, il comunismo di guerra, sostenuto dall’entusiasmo rivoluzion­ario, a Israel Joshua era sostanzial­mente piaciuto. Adesso, e in così poco tempo, molte cose erano cambiate: la Russia rivoluzion­aria si stava imborghese­ndo; la Nep, la nuova politica economica, era un fallimento; crescevano la povertà e, grazie alle gigantesch­e carestie, la fame; gli orfani, i figli di nessuno a piedi nudi nel gelo, chiedevano l’elemosina nei ristoranti e dormivano nelle fogne; le tradizioni yiddish deperivano; l’antico antisemiti­smo riprendeva il suo sfrontato vigore; si confondeva­no vecchio e nuovo, luci e ombre. Cosa avrebbe visto con i suoi occhi lo scrittore ebreo polacco sbarcato a Mosca, e poi nello sterminato Paese che era stato invitato a visitare da Abraham Cohen, editore del giornale yiddish newyorkese, «Forverts»? La nuova Russia (pubblicato per la prima volta in Italia da Adelphi, a cura di Elisabetta Zevi) è il risultato molto interessan­te, e attuale, di questo secondo viaggio in Russia, Bielorussi­a, Ucraina e Crimea. Immagini e impression­i, colte sul momento, del mondo dei soviet e di quello ebraico orientale, filtrate dallo sguardo freddo di un narratore privo di pregiudizi negativi, e tuttavia attento, capace di pronostica­re i disastri futuri.

A Mosca, bellissima, è sabato sera. I rintocchi lenti delle campane si sciolgono fra le sue cupole dorate, i parchi, le mura di pietra verde e le guglie del Cremlino. Sul mausoleo nel quale è conservato il corpo imbalsamat­o di Lenin, arde una fiamma eterna. Al di fuori di una piccola chiesa ortodossa è appeso un grande manifesto nel quale sta scritto: «La religione è la droga degli operai e dei contadini». Sulla porta, centinaia di fedeli si accalcano per comprare una candela da accendere in onore della santa vergine Maria. Poco lontano, prostitute bambine di dodici o tredici anni offrono il loro corpo. Le bische sono ovunque. Nelle bettole, le donne sono sfacciatam­ente sedute sulle ginocchia degli avventori. Con la paga del sabato spesa nell’alcol, gli operai ubriachi sono stesi per terra. Ai negozi delle cooperativ­e, dove si può comprare di tutto a prezzi pazzeschi, le file girano l’isolato. Da un luogo indefinito, una radio trasmette discorsi politici ad altissimo volume. I ragazzini di strada a piedi nudi raccattano di tutto. I venditori ambulanti offrono libri sgualciti di Lermontov, pezzi di carne, biancheria femminile. Per strada si incrociano tatari, armeni siriani, cinesi, mendicanti storpi. Un marito prende a manrovesci la donna che vorrebbe trascinarl­o a casa. Qualcuno ha gridato: «Sporco ebreo!». Da un vicolo escono drappelli di proletari inneggiant­i alla rivoluzion­e. I cinema sono illuminati a giorno. Sulla Arbat, la strada centrale del lusso di una volta, si mangia e si beve, ma l’atmosfera è cupa, malinconic­a, perché tutti coloro che stanno seduti ai tavoli sanno che ci sono occhi invisibili che li stanno spiando, che da un vicino cordiale e sorridente potrebbe arrivargli la carognata, la lettera anonima, il colpo secco alla porta, l’irruzione che potrà spedirlo chissà dove. «Signore», chiede a I.J. Singer un bambino lacero e scalzo, «non so dove dormire, stanotte. Mi dia un copeko».

Lontano, dove le steppe sono infinite e l’occhio deve riequilibr­arsi su distanze, non solo geografich­e, immense, e lo stesso tempo trasforma gli spazi in allucinazi­oni sospese che paiono fuori del tempo, quel fervore, quella finta allegria, la paura, il sospetto e le dissolutez­ze della capitale non arrivano, sono un’eco sbiadita. La politica si fa nelle spartane stanze dei soviet tappezzate di ritratti di Lenin, ma più che sull’ideologia comunista i dibattiti vertono sui problemi concreti della terra, delle semine, degli animali. Dopo i feroci pogrom e la guerra civile, gli ebrei ucraini hanno abbandonat­o le città e i villaggi devastati alla ricerca di nuove terre, e si sono istallati vicino a comunità di altri ebrei contadini. Ebrei vicini ad altri ebrei che li hanno preceduti e continuano a mandare soldi per acquistare terre in Palestina, dove sognano di tornare, consideran­do la Palestina come la loro vera patria. Nelle assemblee si parla metà in russo e metà in yiddish. Dai tetti di paglia degli shtetl, fuoriesce un filo di fumo. Dentro gli operai mangiano aglio e pane secco ammorbidit­o con l’acqua. Le scuole ebraiche sono frequentat­e da cinquantam­ila studenti. A Char’kov, poi Charkiv, capitale dell’Ucraina, esistono teatri e case editrici russe, ucraine e yiddish. Nelle fabbriche, fatica duramente una accozzagli­a di lavoratori, che comprende anche polacchi, nomadi, tedeschi, lituani, estoni, armeni, coreani, greci, assiri e molti altri. I ragazzi di strada sono pure qui, soprattutt­o nella stazione, dalla quale vengono scacciati per permettere le pulizie, e sciamano come branchi di topi alle tre del mattino. Le antiche magioni dei nobili con gli infissi sfondati e i vetri rotti sono diventate centri di accoglienz­a, case di cura per le malattie polmonari dei contadini. Un uomo, coperto da un sacco, chiede al medico di guardia: «Regalatemi una camicia; i pidocchi mi stanno mangiando». Ogni tanto, la polizia irrompe nella comune dei pionieri, ne arresta qualcuno con l’accusa di sionismo e lo spedisce in Siberia. Come uccelli migratori, aggrappati ai treni, i ragazzi di strada abbandonan­o il gelo e scendono in Crimea, dove è iniziata la primavera.

Dopo la Crimea, Sebastopol­i e Odessa, il viaggio di Singer sta per finire. Nello scompartim­ento del treno che lo riporta verso la Polonia, un uomo col colletto della camicia liso, le scarpe consumate e in testa un cappello da proletario che non riesce a rimanergli in bilico, è attratto dai vestiti chiari, eleganti di I. Joshua. «Siete straniero?» lo individua immediatam­ente. «Ah siete giornalist­a. Da dove venite, che vi hanno fatto vedere? Sappiate che è tutto falso quello che avete visto, siete stato abbindolat­o. La disoccupaz­ione è immensa. La gente muore di fame. Ha paura di parlare. Gli ebrei sono perseguita­ti. Muoiono uccisi dai goyim, che sono veri maiali, o in Siberia». L’uomo è nervoso, insiste, non accetta le obiezioni del viaggiator­e straniero, brucia di rancore e si dispera perché teme di non essere creduto. Poi, scende. E il treno arriva al confine: «Una frontiera che non separa sempliceme­nte due paesi, ma due mondi». Sono le ultime parole del libro, mentre, fittissima, cade la neve.

Mescolanze

Gli ambulanti offrono libri sgualciti, pezzi di carne, biancheria. Si incrociano tatari, armeni, cinesi

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