«Ecco gli hater di un secolo fa»
La regista di «Cattiverie a domicilio»: gli insulti si facevano per lettera
Quando ha letto il copione, Olivia Colman non riusciva a smettere di ridere. Troppo incredibile per non diventare un film la storia di Cattiverie a domicilio di Thea Sharrock (dal 18 aprile in sala con Bim). «Non credevo che fosse successo davvero, invece la verità spesso è più strana della finzione», racconta la regista londinese. Per la precisione, nel 1922, in un paesino del sud dell’inghilterra. Le due vicine di casa Edith Swan (nel film Colman), pudica e timorata di Dio, secondo l’educazione rigidissima impartita dal padre (Timothy Spall), e Rose Gooding (Jessie Buckley) immigrata irlandese allergica alle convenzioni con figlia a carico, si trovano al centro di uno scandalo. Alcuni, compresa Edith, iniziano a ricevere lettere anonime piene di irriferibili parolacce. I sospetti ricadono su Rose, mentre il caso diventa di interesse nazionale fino a approdare in un’aula di tribunale. Con un epilogo che ribalta ogni certezza.
«È stato lo sceneggiatore Jonny Sweet a scovare la storia e ha proposto a Colman e suo marito Ed Sinclair di coprodurre il film. È profondamente britannica, folle, comica, divertente, ma anche dura e appassionante, svela la tenerezza e la vulnerabilità dei personaggi. E credo spieghi tanto di noi inglesi».
Servivano interpreti adatte. «Olivia e Jessie sono amiche, hanno recitato in La figlia oscura di Maggie Gyllenhaal da Elena Ferrante. Bravissime, capaci di virare dalla commedia verso toni da tragedia greca». E di toccare sublimi vette di turpiloquio senza risultare sguaiate. «Solo grandi attrici potevano reggere la gara di parolacce richiesta dai dialoghi». Che hanno turbato qualche spettatore in patria. «Lo trovo interessante: siamo abituati agli uomini che imprecano, ma non pensiamo che le donne possano farlo. Che invece, giustamente, vogliono riguadagnare l’uso della lingua, essere libere di utilizzare le parole che vogliono». Liberatorio anche sul set. «Ci siamo divertiti molto. La maggior parte degli insulti era già nel copione, alcuni sono stati improvvisati. Ma, sottolineo, che la fonte primaria sono le lettere originali di cento anni fa. Quei toni, quelle frasi, quelle offese quasi barocche erano reali. Finirono sui giornali dell’epoca».
È un film sull’amicizia tra donne, dice Sharrock. «Su quanto sia complessa e profonda. E anche su quanto male possiamo farci quando emerge il lato negativo della relazione, per qualsiasi ragione. Spesso succede per insicurezza, paura, un dolore profondo che ti fa comportare improvvisamente molto male con qualcuno con cui eri molto amico. Le migliori amicizie a volte devono superare questo percorso per diventare indistruttibili». E affronta anche altri temi: il pregiudizio, l’iposcrisia nascosta dietro l’etichetta, la libertà di espressione. E il desiderio di mettere altri alla gogna. «Anche questo aspetto è molto attuale. Ma un secolo fa se volevi insultare qualcuno dovevi scrivere una lettera, era uno scambio da una persona all’altra, a meno che non si decidesse di condividerlo. Ora se vuoi dire una cattiveria su un’altra persona, lo puoi fare in un istante sui social network. È più violento».