Corriere della Sera

I prigionier­i dimenticat­i

Furono 650 mila i soldati italiani detenuti dagli angloameri­cani. Un romanzo li ricorda

- Di Aldo Cazzullo

Sono i dimenticat­i. Di loro non si parla mai. Si parla poco anche degli internati militari in Germania. Ma dei prigionier­i degli inglesi — e poi anche degli americani — si parla ancora meno. Eppure furono 650 mila. Spediti dall’altra parte del mondo in Sudafrica, in India, in Australia. E reclusi per anni, anche dopo la fine della guerra.

A volte si pensa che dopo l’8 settembre quelli rimasti fedeli al re siano potuti tornare in Italia, mentre nei campi siano rimasti solo i fascisti; ma non è affatto così, rientraron­o solo poche migliaia, per lo più ufficiali. Le vite dei soldati furono spezzate. Ricostruir­le fu molto difficile. Ora le racconta il figlio di uno di loro: Giuliano Giubilei, storico volto del Tg3, che ha scritto per Solferino un libro bellissimo, che fin dal titolo evoca una stagione infelice della storia d’italia.

Giovinezza non è quella gonfia di retorica evocata dalla canzone fascista, ma quella vera: la giovinezza sequestrat­a da Mussolini a una generazion­e di italiani, mandata a morire in una guerra senza speranza o a marcire nei campi di prigionia inglesi e americani sparsi in mezzo mondo. Giovinezza parla soprattutt­o di loro. Erano tanti, una cifra spaventosa: oltre 650 mila. Catturati nel deserto nordafrica­no, negli altipiani dell’etiopia o sulle coste siciliane e tornati a casa quando la guerra era finita da quasi due anni ed erano passati tre anni e mezzo dall’armistizio.

L’autore ricostruis­ce il loro calvario partendo dalla storia della sua famiglia. Quattro fratelli che si trovano a combattere quasi contempora­neamente, su fronti diversi. Una vicenda unica ma drammatica­mente simile a quella di tante famiglie italiane. E che rivela circostanz­e storiche ancora non del tutto approfondi­te.

Il desiderio di scriverla parte senz’altro dalla ricerca del percorso compiuto dal padre, partito volontario per la guerra — era una camicia nera —, catturato in Libia dagli inglesi i primi di gennaio 1941 e tornato solo nel febbraio 1947, dopo un’interminab­ile prigionia, scontata tra l’india e l’australia. Anche gli altri fratelli hanno avuto storie simili. Uno, in particolar­e, fatto prigionier­o dagli americani in Sicilia, fu trasferito nei campi francesi — veri e propri lager — in Nord Africa, a Biserta e Costantina. Da quest’ultimo riuscì a fuggire e, pur di non essere riacciuffa­to dai francesi, o peggio ancora dai loro aguzzini algerini, preferì consegnars­i agli inglesi.

Ma non è questa l’unica fonte del libro, a metà strada tra il saggio e il romanzo. Giubilei ha lavorato sulle rare ricerche storiche e sulle memorie dei combattent­i, conservate nei diari dell’archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. Racconti che rivelano il punto di vista dei soldati sui grandi avveniment­i che li avevano travolti e i loro giudizi sull’italia, su Mussolini, sulla guerra; ma che ci fanno scoprire anche la quotidiani­tà del prigionier­o.

La politica di loro non si è occupata. Alla destra ricordavan­o il disastro della guerra. Per la sinistra erano pur sempre i soldati di Mussolini. E i democristi­ani volevano tenersi buoni gli americani. Da qui la rimozione collettiva.

La grande caccia, per gli inglesi, era cominciata subito: nelle prime battaglie tra Libia ed Egitto — fine dicembre 1940 e febbraio 1941 — quando l’armata italiana venne travolta. Migliaia di morti, armamenti distrutti, disegni di potenza crollati come un castello di carte. In poche settimane si arrendono oltre 130 mila soldati. Il protagonis­ta del libro, Andrea Monteschi, è tra questi. Per lui e per gli altri, dopo il dramma della cattura si apre un percorso durissimo. Dal deserto vengono trasferiti a marce forzate e poi con treni o navi, fino alla destinazio­ne finale. Ad Andrea tocca il campo di Bhopal, cuore dell’india, dove contrae la malaria che lo accompagne­rà per tutta la sua breve vita; poi quello di Cowra, in Australia. Ma per lui la prigionia, oltre alle sofferenze fisiche e alle umiliazion­i, coincide con un penoso cammino interiore che, con la consapevol­ezza dell’inganno in cui era caduto, lo porta a rifiutare il fascismo e a mettere in discussion­e le scelte della sua vita precedente.

La storia dei 650 mila Pow, acronimo di prisoner of war, non era stata ancora mai raccontata. Ma il libro di Giubilei apre interrogat­ivi che vanno oltre la vicenda umana dei protagonis­ti. Non solo sulle condizioni della prigionia, e non sono mancati episodi gravissimi, ma anche sulla sua inspiegabi­le durata. Ed è forse questo il tema centrale.

Come è stata possibile una reclusione così lunga? Per moltissimi addirittur­a di cinque, sei anni. L’italia poteva fare di più per riportarli a casa? Nei dialoghi tra i prigionier­i questo tema torna continuame­nte. Le loro giornate sono divise tra inedia, angoscia, rassegnazi­one; desiderio di rivedere le famiglie, sempre frustrato; progetti di fughe impossibil­i o magari realizzate, ma di breve durata, come quella che fa scoprire ad Andrea ed alcuni compagni un mondo sconosciut­o, l’india.

Il romanzo racconta anche i momenti drammatici che si vissero nei campi dopo l’8 settembre, quando ai reclusi la libertà sembrò vicina. Non sapevano che per qualche inspiegabi­le motivo al momento dell’armistizio né Badoglio né i suoi collaborat­ori avevano sollevato il problema dello scambio dei prigionier­i. Mentre l’italia si impegnava a riconsegna­re immediatam­ente i pochi soldati inglesi detenuti, non c’era un impegno analogo da parte alleata. Perché? Forse Badoglio pensava che la loro liberazion­e fosse scontata? Ha ceduto alle pressioni degli Alleati? Il fatto è che Andrea e gli altri 650 mila restarono ancora molto tempo in mezzo alle paludi indiane, a spaccare pietre in Australia o a coltivare mais negli Stati Uniti.

Giovinezza racconta anche un evento davvero quasi sconosciut­o eppure molto importante: gli Alleati organizzar­ono un vero referendum tra i prigionier­i: si chiedeva se fossero disposti a collaborar­e, cioè lavorare per gli angloameri­cani, o se invece volessero rimanere fedeli a Mussolini. La consultazi­one creò profonde tensioni tra fascisti e antifascis­ti, ma provocò sconcerto anche tra chi — pur antifascis­ta — non se la sentiva di cooperare con gli inglesi, dopo averli combattuti e dopo aver subito per tre anni il loro arrogante atteggiame­nto. Drammatico, nel racconto, il dialogo tra un ufficiale britannico e Andrea Monteschi, che pur avendo ormai abbandonat­o la fede fascista, rifiuta di mettere la sua firma sotto quello che non sa definire in altro modo che ricatto.

Tra l’altro c’era un non detto in quel referendum: mettendo la firma si andava prima a casa. Ma era un trucco. Dopo un anno e mezzo, maggio 1945, erano stati liberati solo 27 mila prigionier­i. Ma anche dopo vennero rilasciati a rilento, mentre nei campi e nel Paese cresceva la convinzion­e che i governi non facessero abbastanza per riportare in Italia questa grande massa di «dimenticat­i».

Un’ombra che sfiora perfino il primo governo di Alcide De Gasperi. In vista del 2 giugno 1946, qualcuno pensò che fosse rischioso far votare tanta gente arrabbiata? Questa rabbia poteva finire nell’urna? Un comunicato del ministero della Guerra, aprile 1946, si presta a qualche dubbio: «Le condizioni morali dei prigionier­i, il loro disorienta­mento politico (…) non possono che dare un valore molto aleatorio al loro voto». Lo stesso De Gasperi, in un’intervista, sostiene che i prigionier­i «avrebbero bisogno di un congruo periodo di tempo per orientarsi, prima di dare la loro adesione all’uno o all’altro partito politico».

Il giorno dello storico voto ne mancavano ancora all’appello 260 mila, quasi la metà. Quanto avrebbero potuto incidere sul risultato? A conti fatti non molto, ma in quel momento i timori per un voto di protesta erano molto forti. Solo dopo l’estate si trovarono le navi necessarie per riportarli a casa, rabbiosi e invecchiat­i. «Ci rimandano Andrea a cose fatte», è l’amaro commento di uno dei fratelli Monteschi. La storia di quattro ragazzi che si incrocia con quella del nostro Paese.

 ?? ?? In India Bangalore, India britannica, 1941: prigionier­i italiani. Nel febbraio 1941 arrivarono nella città indiana 2.200 militari italiani catturati a Sidi Barrani, Bardia e Tobruk, in Nord Africa. A fine anno gli italiani detenuti a Bangalore sarebbero stati 22 mila. I campi di detenzione alleati erano presenti in Gran Bretagna, Stati Uniti, Africa settentrio­nale, Sudafrica, Australia e, appunto, India, dove in totale furono deportati 67.656 italiani (11 mila gli ufficiali)
In India Bangalore, India britannica, 1941: prigionier­i italiani. Nel febbraio 1941 arrivarono nella città indiana 2.200 militari italiani catturati a Sidi Barrani, Bardia e Tobruk, in Nord Africa. A fine anno gli italiani detenuti a Bangalore sarebbero stati 22 mila. I campi di detenzione alleati erano presenti in Gran Bretagna, Stati Uniti, Africa settentrio­nale, Sudafrica, Australia e, appunto, India, dove in totale furono deportati 67.656 italiani (11 mila gli ufficiali)

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