Corriere della Sera

Fuliggine, sangue e libertà La salvezza viene dalle donne

- Di Elisabetta Rosaspina © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Cenere, cenere come il cielo di Milano, due anni prima della fine del XIX secolo, quando ogni fabbrica aveva almeno due ciminiere che esalavano il fumo prodotto dalla combustion­e del carbone. Sotto quelle ciminiere si sfiancava, sottopagat­a e tiranneggi­ata, la manodopera più economica disponibil­e sul mercato del lavoro: quella femminile e minorile.

Eppure, a cavallo tra i due secoli, nei bei palazzi di Porta Venezia (allora si chiamava Porta Orientale) e di via Pietro Verri, appena sfiorati dalla fuliggine, germoglia una coscienza civile: la solidariet­à socialista di Anna Kuliscioff e di Alessandri­na Ravizza, dalle comuni origini russe, la lungimiran­za di Ada Negri Garlanda, Bambina Venegoni, Linda Malnati, Carolina Ponzio, Jole Bersellini Bellini, Antonietta Pisa Rizzi e di molte altre pioniere del femminismo milanese.

Tiziana Ferrario, per anni conduttric­e televisiva della Rai, inviata di esteri e corrispond­ente da New York, avrebbe potuto ricavarne agevolment­e un’encicloped­ia di irriducibi­li rivoluzion­arie, di una brillante squadra di filantrope, capaci di cambiare il volto della metropoli nascente, di restituire dignità a operaie e proletarie, di sottrarre alla fame e ai soprusi le adolescent­i sfruttate 14 ore al giorno nei laboratori e nelle sartorie. Ma ha preferito raccontare tutto questo attraverso pagine da romanzo: Cenere, pubblicato da Fuoriscena.

Le protagonis­te sono tutte (o quasi) realmente esistite; e i pochi personaggi immaginari sono certamente esistiti anche loro, con altri nomi, ma identici destini.

Giovannina Lombardi, che l’autrice introduce quando ha dieci anni, guiderà quattro anni dopo, il 23 giugno 1902, «la rivolta delle piscinine», quelle bambine gracili e perennemen­te di corsa che, fino a oltre metà del secolo scorso, si affannavan­o a consegnare in giro per la città gli abiti confeziona­ti o rimodellat­i nei numerosi laboratori di sartoria. Mariuccia, che nel libro diventa la sua unica vera amica, è proprio la sfortunata figlia del parlamenta­re socialista Luigi Majno e di Ersilia Bronzini, una delle fondatrici dell’unione femminile nazionale, costituita a Milano nel 1899 sulla base di un manifesto programmat­ico «per l’elevazione e istruzione della donna, per la difesa dell’infanzia e della maternità».

Il pittore Giuseppe Mentessi, che compare all’inizio del romanzo con la sua celebre tela Panem nostrum quotidianu­m, doveva essere stato testimone dei sanguinosi scontri dell’8 e 9 maggio 1898, quando a Milano scoppiaron­o le proteste per l’aumento del prezzo del grano e i soldati di Fiorenzo Bava Beccaris spararono sulla folla per ristabilir­e l’ordine pubblico.

Doveva esserci anche un’adalgisa, la custode di via Palestro che nel romanzo offre riparo a lui e a Giovannina, mentre il corteo sfila in centro tra i cannoneggi­amenti e per le strade. Il leader socialista Filippo Turati nelle stesse ore stava per essere incarcerat­o dopo il sequestro della sua rivista, «Critica Sociale».

C’era senza dubbio una qualche Wanda titolare di una casa chiusa, come quella (autentica) di via Fiori Chiari 17; e così una Violetta o una Rita, finite per scelta o per sbaglio, di sicuro per sopravvive­re, nella trappola della prostituzi­one. Forse è un po’ ottimista la figura di Ernesto, il cocchiere generoso, che appare sempre al momento giusto per soccorrere adolescent­i in fuga dalla miseria o dalla maîtresse, però il romanzo rende giustizia agli uomini progressis­ti che, come Majno o Mentessi, erano sensibili alla causa femminile.

«Sì, ho lavorato un po’ di fantasia, ma anche loro rappresent­ano il mondo di allora. Assomiglia­no ai protagonis­ti dei romanzi famosi in quel periodo e che mi sono riletta con attenzione — spiega Tiziana Ferrario —. Il mio scopo era soprattutt­o quello di rendere omaggio alla storia di questa città che ha fatto tanto per l’italia».

Milanese di nascita (e da tre generazion­i per via paterna), Ferrario ha ricordi di infanzia non così distanti dall’atmosfera che ha riallestit­o nel suo libro: a metà degli anni Sessanta, le ultime piscinine si scapicolla­vano ancora con i loro pesanti scatoloni sotto il braccio, e «gli ambulanti passavano nei cortili delle case a vendere carbone e ghiaccio per chi non possedeva il frigorifer­o».

Non era molto tempo fa. Sono passati poco più di cento anni da quando le donne non avevano diritti e, in quella Milano grigio-cenere, subivano angherie in fabbrica e violenze a casa. «E ne sono passati meno di settanta da quando lo Stato incassava la sua quota di proventi dalle tenutarie di bordelli», ricorda Ferrario.

Gli archivi traboccano di materiale al riguardo e, in conclusion­e, l’autrice rende merito a chi le ha aperto le porte di quei forzieri di notizie: all’unione femminile, all’asilo Mariuccia, alla Fondazione Kuliscioff, al Centro documentaz­ione del «Corriere della Sera», e a una schiatta di cronisti del tempo, come Paolo Valera, «acuto e polemico osservator­e della città dei derelitti, vissuto a cavallo tra i due secoli».

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Milano durante i moti repressi nel sangue dal generale Fiorenzo Bava Beccaris l’8 maggio 1898: i morti furono centinaia, un migliaio i feriti

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