Corriere della Sera

«E tra i miei fan sbucò Fellini»

Shel Shapiro: «A Milano ci guardavano come marziani. Comprammo un’assurda Cadillac dalla Lollobrigi­da. Recitai con Totò»

- di Walter Veltroni

«Londra negli anni Sessanta era come tutto il mondo, negli anni Sessanta. Era piena di luce, di colore, di speranze. La guerra era poco lontana, un soffio di anni, ma ci si voleva liberare di quell’incubo. Londra era sospesa tra il rifiuto del passato e il sorriso del futuro. Era piena di promesse e di energia positiva. Non per caso è nato lì il movimento culturale che ha scosso il costume di quegli anni. Io suonavo a Carnaby Street, prima che diventasse Carnaby street. I ragazzi delle basi americane venivano a sentirci e facevano i cori. Erano per lo più afroameric­ani e la loro musica, quella che cantavano con noi, era quella dei Platters e dei Drifters».

Comincia così il racconto di Shel Shapiro, oggi ottant’anni, il leader dei Rokes, che portarono Londra in Italia, all’inizio degli anni Sessanta.

«A casa mia si viveva di musica. Mio nonno suonava il corno nella banda dello zar Nicola secondo, ma di mestiere faceva il pellicciai­o, come il mio bisnonno. Di lui si racconta che una volta la zarina ruppe la sua cappa di ermellino, rimasta impigliata in una pianta di rose. Era disperata e cercava qualcuno che la riparasse. Mio nonno ci riuscì e la zarina gli chiese cosa potesse fare per ricambiare. Lui si inventò che aveva un fratello a Londra e che voleva raggiunger­lo. È così che noi Shapiro siamo arrivati in Inghilterr­a. Mia mamma suonava il pianoforte, mio zio faceva concerti in giro con i primi organi Hammond, un cugino era voce bianca. Musica ovunque. Mio padre una volta tornò da un viaggio nei paesi della cortina di ferro con una chitarra per me che gli era costata cinque sterline. E così ho cominciato a suonare».

Shel forma un gruppo in cui ci sono Bobby e Mike, addirittur­a parente di John Keats, che saranno con lui nei Rokes e Vic Briggs che invece andrà negli Animals. Si esibiscono nei locali londinesi poi, come i Beatles, vanno ad Amburgo. Vengono poi ingaggiati per accompagna­re, in un tour italiano, un cantante che era diventato popolare grazie alla colonna sonora di un film di Blasetti, Colin Hicks.

Con Rita Pavone

«Dovevamo stare tre settimane, io sono ancora qui. Ricordo che quando arrivammo a Milano, in Piazza Duomo, provocammo un incidente tra varie auto a causa della lunghezza dei nostri capelli, ci guardavano come fossimo marziani. La seconda settimana andiamo a suonare all’alcyone di Torino e Hicks perde la voce. Così restiamo soli sul palco, ma alla gente piacciamo molto, la sala si riempie ogni giorno di più. La terza settimana la facciamo a Roma e un collaborat­ore di Teddy Reno ci ascolta all’ambra Jovinelli. Sia chiaro: noi facevamo l’avanspetta­colo, roba anni Quaranta e Cinquanta, con delle ballerine già anziane che dovevano sopportare le celie del pubblico. Noi suonavamo prima e tutto era assurdo, magnificam­ente assurdo. Insomma questo tipo ci offre di fare un tour con Rita Pavone. Noi non sapevamo ovviamente chi fosse, ma abbiamo accettato».

Gli chiedo quando abbia capito che avevano sfondato.

«Con il Piper. Fummo chiamati con l’equipe 84 per l’apertura del locale e la gente impazziva per noi. Una sera arrivano due persone con un codazzo di fotografi. Io non sapevo chi fossero. Era una coppia. La donna dice che era una nostra ammiratric­e e mi chiede, emozionata, di farle un autografo. Lei mi detta il suo nome e io scrivo: “A Giulietta, Shel Shapiro”. Era Giulietta Masina, e lui era Federico Fellini che ci guardava divertito. Ma il vero momento in cui ho capito che stava succedendo qualcosa di grosso è stato un giorno al bar della Rca, il posto dove ci si incontrava tutti, in quegli anni meraviglio­si di musica e divertimen­to. Entrò Sergio Bardotti, il grande paroliere, e con in mano una copia della rivista Grand Hotel che pubblicava le classifich­e di vendita dei dischi urlò che “C’è una strana espression­e nei tuoi occhi” era al primo posto».

Ricordo a Shel che i loro dischi uscivano con un’etichetta verde, e una sigla, «Arc», che era l’anagramma delle tre lettere di Rca. Quella inedita scuderia doveva essere quella che si rivolgeva prevalente­mente ai nuovi pubblici. Pubblicaro­no con l’arc Patty Pravo, Dino, Lucio Dalla, il povero Roby Ferrante, autore di «Ogni volta», che morì giovane in un incidente automobili­stico.

«È la pioggia che va»

«Sì, la Rca voleva ringiovani­rsi, evidenteme­nte. Ricordo quello stabilimen­to sulla Tiburtina come un luogo in cui tutti sorridevan­o, c’era un sacco di luce, un sacco di colore. I nostri anni d’oro sono stati dal 1964 al 1968. Abbiamo fatto soldi però mai come sarebbe accaduto se avessimo avuto lo stesso successo negli anni Ottanta o oggi. Ricordo che ci comprammo una assurda Cadillac da Gina Lollobrigi­da, alla quale l’aveva regalata la Mgm. Quella macchina ci salvò comunque da uno spaventoso incidente che avemmo a Corso d’italia, a Roma». I Rokes arrivano secondi al Cantagiro del 1966, dietro allo l’equipe 84. È l’edizione che certifica come i complessi siano diventati componente essenziale del mondo discografi­co. «Arrivammo secondi, perché dovevamo arrivare secondi. Allora c’erano due grandi case discografi­che, la Rca e la Ricordi, e non era pensabile che una sola vincesse tutte le categorie, sia quella dei solisti che quella dei complessi. E quell’anno vinse Morandi. Ma devo dirti che a me non piaceva che venissimo ogni sera giudicati come fossimo a Miss Italia. Siamo dei musicisti, suoniamo per il pubblico, non per le palette dei sedicenti giurati. Del Cantagiro ho un brutto ricordo, anzi un inutile ricordo. Venivamo sfruttati e gettati in pasto a quel giudizio sommario. Pollice su e pollice giù. Non faceva per noi».

Gli chiedo quale sia la loro canzone che preferisce. Ne hanno fatto di bellissime, almeno per noi che le sentivamo a ripetizion­e sui giradischi e nei mangiadisc­hi.

«La più bella? “È la pioggia che va”, non ho dubbi. Poi ricordo il successo di “Cercate di abbracciar­e tutto il mondo come noi”. La canzone non era male, ma contribuì molto una geniale idea di marketing di Mimma Gaspari che decise di immergere le copertine del 45 giri in un bagno di profumo e poi chiuderle in una copertina di plastica che ne conservass­e la fragranza. Era il periodo dei figli di fiori e Mimma ordinò cinque litri di profumo “Madame Rochas”».

ricordo benissimo, quel profumo, e la copertina colorata di quel disco del 1967. Che è anche l’anno di Sanremo, del primo dei tre festival ai quali i Rokes hanno partecipat­o.

«Quell’anno eravamo con Lucio Dalla, eseguivamo “Bisogna sapere perdere”. Ricordo che noi lo caratteriz­zammo con dei colpi di tacco che facevamo durante il ritornello. Fu un grande successo, almeno di pubblico. Di quel brano io avevo scritto la musica ma non potei firmarla perché non ero iscritto alla Siae. Di tutti i diritti, in queste decine di anni, non ho visto né una lira, né un euro. Ma vabbè. Tornammo l’anno dopo con “Le opere di Bartolomeo”, insieme ai Cowsills e nel 1969 facemmo la nostra ultima apparizion­e in coppia con Nada, cantavamo “Ma che freddo fa”. Ci siamo sciolti alla fine di quel decennio, come quasi tutti i gruppi. Non aveva più senso stare insieme, avevamo fatto quello che potevamo, quello che dovevamo. Non ci divertivam­o più. Da quando abbiamo deciso di separarci non ci siamo mai più visti, tutti e quattro insieme. E mi dispiace».

Il film con Totò

I Rokes hanno anche girato qualche film, qualcuno di quei meraviglio­si «musicarell­i» che oggi vengono giustament­e rivalutati in un libro di Marta Cagnola e Simone Fattori.

«Pensa che io non sapevo neanche si chiamasser­o così, me lo ha spiegato qualche anno fa Steve Della Casa. Noi abbiamo girato “Rita la figlia americana” e c’era Totò. Lo ricordo come un gran signore, gentile, fragile. Non vedeva più nulla, i suoi occhi erano stati consumati dalle luci dei set ma si muoveva con leggerezza durante le riprese. Era una persona bella, elegante, discreta. Avevamo anche iniziato le riprese di “Don Camillo e i giovani d’oggi” ma Fernandel si ammalò e poi morì. Fellini, la Masina, Totò, Fernandel, quanti intrecci meraviglio­si, in quegli anni».

A proposito di intrecci, ricordo che i Rokes, nella improbabil­e parte di quattro indiani, partecipar­ono nel 1967 a uno stravagant­e spettacolo della Rai, dal titolo «Non cantare, spara» in cui comparivan­o, insieme, il Quartetto Cetra, Aroldo Tieri, Mac Ronay, Gianrico Tedeschi, Mina, Nando Gazzolo e Giorgio Gaber. Tutto sembrava possibile, in quegli anni. E forse lo era.

«È stato il periodo in cui i genitori non parlavano più, in casa, di quanto fosse stata dura la guerra. Anche loro, finalmente, avevano fiducia nel futuro. Lungo quel decennio sono circolate valanghe di idee. Erano anni non violenti. Anche il sessantott­o, se ci pensi, non lo è stato. La violenza è iniziata dopo. Era un tempo di energia gentile. Avevamo bevuto pensieri positivi e avevamo sognato sogni positivi».

Tra il ’64 e il ’68 furono anni d’oro Poi il divertimen­to finì e così ci sciogliemm­o. Non ci siamo più visti tutti e quattro insieme. E mi dispiace

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In una foto del 1969 i componenti dei Rokes: Shel Shapiro; voce e chitarra, Robert «Bobby» Posner, basso; Mike Shepstone, batteria e Johnny Charlton, chitarra solista. La band nacque nel Regno Unito nel 1960 con il nome di «Shel Carson Combo», poi nel 1964 prese il nome con cui è diventata celebre: «The Rokes»
(Contrasto) Insieme In una foto del 1969 i componenti dei Rokes: Shel Shapiro; voce e chitarra, Robert «Bobby» Posner, basso; Mike Shepstone, batteria e Johnny Charlton, chitarra solista. La band nacque nel Regno Unito nel 1960 con il nome di «Shel Carson Combo», poi nel 1964 prese il nome con cui è diventata celebre: «The Rokes»
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(Lapresse) Al Piper Un’esibizione dei Rokes nel 1966
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Shel Shapiro, 80 anni, è stato il leader dei Rokes
Oggi Shel Shapiro, 80 anni, è stato il leader dei Rokes

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