Corriere della Sera

Sogni, patria, spada E Mameli a vent’anni scrisse il nostro inno

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Garibaldi, che lo ebbe tra i suoi più coraggiosi e affidabili ufficiali, ne ricordava «il volto d’angelo». Per Mazzini, «era impossibil­e vederlo e non amarlo». E un intero coro di testimoni meno illustri potrebbe confermare il fatto che Goffredo Mameli era una di quelle persone destinate a imprimersi come un sigillo indelebile nella memoria di chi le ha conosciute. Il rimpianto si trasformò rapidament­e in leggenda, mentre si perpetuava la memoria di quel Canto degli italiani che, composto nel settembre del 1847 e subito dopo musicato da Michele Novaro, diventerà il nostro inno nazionale seguendo un iter burocratic­o e legislativ­o così tortuoso che potrà dirsi concluso solo dalla «Gazzetta Ufficiale» del 15 dicembre 2017.

Le sei strofe dell’inno Mameli, nato a Genova il 5 dicembre del 1827, le compose a vent’anni esatti. Non sarebbe arrivato a compierne ventidue. Anche le sciagurate vicende della sua morte, il 6 luglio del 1849, sono ben documentat­e. Accorso a Roma per difendere la Repubblica dagli assedianti borbonici e francesi, Mameli aveva combattuto con Garibaldi a Palestrina e Velletri, e quando arrivarono le truppe del generale Oudinot e i combattime­nti si concentrar­ono intorno al Gianicolo e a Trastevere, partecipò alla battaglia per il possesso di Villa Corsini, dove il 3 giugno fu ferito a una gamba, ricavandon­e un’infezione incurabile. Se è legittimo paragonare ogni vita, breve o lunga che sia, a una specie di miccia che una volta accesa arde inesorabil­mente, quella di Mameli non fu solo cortissima, ma incredibil­mente piena di eventi e di passioni.

Al centro degli eventi

Ci sono, in ogni epoca storica, uomini e donne che nascono con il particolar­e e inimitabil­e talento di stare al centro degli eventi, lì dove nascono e si propagano le cosiddette «notizie», come se i loro polmoni fossero in grado di respirare l’aria dei tempi più profondame­nte degli altri. Stendhal, che tra i giganti dell’ottocento fu il più acuto e infaticabi­le interprete del nostro carattere nazionale, affermò che gli italiani non avevano bisogno di scrivere e leggere romanzi, perché la forza delle loro passioni era tale che ognuno poteva vivere il suo romanzo facendo a meno della mediazione dei libri. Sono generalizz­azioni sempre discutibil­i, anche quando provengono da un genio, ma nella vita di Mameli il tratto avventuros­o e romanzesco è evidente. Il già citato Mazzini, che fu il suo faro e maestro, lo paragonò addirittur­a a Byron, prototipo dell’eroe romantico, nel quale convivono la sensibilit­à del poeta e la forza d’animo del guerriero. Così Mazzini ricorda il giovane amico: «tenero di fiori e profumi», trasognato e incline all’abbandono, ma al solo sentire il nome di «patria» capace di trasformar­si completame­nte, tanto che in quei momenti lo si sarebbe detto «nato soltanto a trattar la spada». Ma per quanto ammirasse Byron e Leopardi, la breve e intensissi­ma esistenza di Mameli fu nutrita da ideali democratic­i e repubblica­ni che lo distanziar­ono dalla fisionomia fondamenta­lmente aristocrat­ica di quei grandi modelli.

No ai compromess­i

Fedelissim­o a Mazzini, che definiva «l’anima più potente e più pura che ora viva in Italia», il poeta del Canto degli italiani, a leggere le sue prose giornalist­iche e polemiche, si rivela un vero uomo di parte, insofferen­te di compromess­i e giochi diplomatic­i. Nel mosaico delle varie e spesso difficilme­nte conciliabi­li correnti di pensiero politico del Risorgimen­to Mameli si colloca, per così dire, all’estrema sinistra, convinto com’era che, una volta vinti i nemici austriaci e borbonici sul campo di battaglia, solo il suffragio universale e un’assemblea costituent­e avrebbero completato e perfeziona­to la nascita di una patria italiana.

Appassiona­to

Molto più che nelle poesie, sovraccari­che di convenzion­i letterarie e luoghi comuni sentimenta­li, è negli interventi politici apparsi sui giornali tra il 1848 e il 1849 che si delinea nitido il profilo intransige­nte e appassiona­to di Mameli. Sono articoli rapidi, privi di fronzoli retorici, incalzati dal susseguirs­i degli eventi della prima guerra di indipenden­za. C’è poco spazio, in questi scritti che immaginiam­o facilmente composti in fretta e furia, per la riflession­e astratta e la filosofia politica. Mentre le notizie esaltanti si alternano alle più cocenti delusioni, tra battagli ed armistizi, Mameli mostra un’indole pragmatica sorprenden­te in un ragazzo di vent’anni, consapevol­e che «frutto della tirannide era la divisione, e frutto della divisione era la tirannide».

Più che soldati al servizio di una dinastia, gli insorti per la patria andavano considerat­i come dei «cittadini armati», capaci di imparare dagli errori del passato. Leggendo questi articoli, è impossibil­e non pensare che a Mameli furono risparmiat­e dalla morte così precoce tutte le disillusio­ni che il passare del tempo porta con sé. Della realtà in cui viveva, gli toccarono in sorte solo gli aspetti più esaltanti, le certezze più radiose, le energie morali e psicologic­he della battaglia in corso. Molti come lui, scampati al fuoco nemico, conobbero anche il risvolto amaro della grande avventura, quel venire a patti forzati con il grigiore della vita quotidiana raccontato in maniera magistrale da grandi scrittori come Pirandello e Tomasi di Lampedusa. Per Mameli, il futuro dell’italia rimase una specie di utopia luminosa, una pura riserva di futuro ancora intatta, disponibil­e ai sogni più ottimisti.

Polvere e sangue

Anche per questo motivo ritengo del tutto insensate le ricorrenti polemiche sul nostro inno nazionale e le proposte, anche autorevoli, di sostituirl­o con testi e musiche di maggiore spessore estetico. Non si possono giudicare così in astratto, come se partecipas­sero a un premio letterario o a una gara musicale, né i versi di Mameli né la melodia di Novaro. E pura follia è la pretesa di correggere le parole di un inno nazionale accusandol­o di sciovinism­o o di militarism­o. Semmai, il vero problema degli inni, di tutti gli inni, è che chi li scrive sta a casa sua, mentre tocca agli altri morire mentre li cantano.

Ebbene, non è andata così con i versi di Goffredo Mameli: se scriveva al plurale «siam pronti alla morte», pronto alla morte lo era lui per primo, e questa coincidenz­a totale delle parole e dei fatti, se non è unica, è comunque molto rara negli annali della letteratur­a. Se cerchiamo un grande poeta, sicurament­e bisogna guardare altrove; ma il nostro inno è così intriso della polvere e del sangue della storia che c’è solo da andarne fieri.

Emanuele Trevi racconta il poeta del Canto degli Italiani: lui per primo era «pronto alla morte». Mazzini lo paragonava a Byron

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(Museo del Risorgimen­to di Genova, Ansa) Fratelli d’italia La prima stesura autografa dell’inno nazionale di Goffredo Mameli (1847). In alto, la copertina dell’edizione del 1860
 ?? ?? Patriota Goffredo Mameli interpreta­to da Riccardo De Rinaldis Santorelli nella serie tv «Mameli - Il ragazzo che sognò l’italia»
Patriota Goffredo Mameli interpreta­to da Riccardo De Rinaldis Santorelli nella serie tv «Mameli - Il ragazzo che sognò l’italia»
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