Corriere della Sera

LA LEGA E LA QUESTIONE SETTENTRIO­NALE

- Di Alberto Mingardi

Si nasce incendiari e si muore pompieri. Quando la Lega compie quarant’anni, è normale paragonare il partito di ieri e quello di oggi. C’è il rischio che il caleidosco­pio del ricordo si fermi solo sulle immagini: Bossi in canotta, il prato di Pontida, l’ampolla del Po.

Se la Lega è sopravviss­uta alle corazzate politiche contro cui era nata non è per uno scherzo del destino. Nella prima repubblica che tanti rimpiangon­o, l’etichetta escludeva che si potesse parlare di tasse. Il carico fiscale era più basso dell’attuale e calmierato da una certa tolleranza per comportame­nti in chiaroscur­o. Ma l’idea che, per i servizi loro resi dallo Stato, gli italiani pagassero troppe imposte era estranea ai partiti di governo come a quello d’opposizion­e, almeno nominalmen­te fautore della nazionaliz­zazione dei mezzi di produzione.

La Lega, già da prima che le inchieste di Tangentopo­li le mettano vento nelle vele, prende per le corna il toro fiscale. E lo fa da una posizione particolar­e: quella di un Nord di imprese piccole che diventano medie e medie che diventano grandi, in parte fornitori delle grandi aziende pubbliche ma in larga parte totalmente indipenden­ti da esse, che sa di essere la locomotiva del Paese. È al Nord che si produce e, di conseguenz­a, che si pagano le imposte. Imposte che tutt’oggi finiscono in buona parte non in servizi offerti sul territorio ma in trasferime­nti al resto d’italia.

Entrato come un elefante nella cristaller­ia della politica (e, col senno di poi, con una capacità di innovare la comunicazi­one seconda solo a quella di Berlusconi), Umberto Bossi pone questo problema. È la «questione settentrio­nale». Che, in quarant’anni, si sarebbe potuto se non risolvere almeno affrontare.

Che cosa è stato fatto? Poco. Su impulso di Gianfranco Miglio, la Lega proponeva una «grande riforma», passata in cavalleria come tutte le grandi riforme, che avrebbe ribaltato la piramide fiscale: le regioni (aggregate nei tre blocchi Nord, Centro e Sud) avrebbero raccolto le tasse e ne avrebbero poi trasferito parte a Roma. Ciò avrebbe innescato un meccanismo negoziale fra centro e periferia che avrebbe potuto migliorare la qualità della spesa o ridurre il prelievo, mentre i diversi territori, «padroni a casa propria», avrebbero potuto agire su offerta di servizi e pressione fiscale, per risultare più attrattivi. Così funziona il federalism­o, dove c’è.

Come «sindacato del Nord», la Lega ha avuto successo, nel senso che da lustri è al governo delle regioni più ricche. Senza però lasciare il segno nelle istituzion­i.

In Italia passa ancora come un affronto alla sovranità nazionale la riforma del titolo V, cui viene attribuita la colpa di avere consegnato la sanità nelle mani delle Regioni. Essa conta per oltre l’80% del loro bilancio. Ma già nel testo della Costituzio­ne del ’48 l’organizzaz­ione della «assistenza sanitaria ed ospedalier­a» è in capo a norme regionali.

L’autonomia proposta dal ministro Calderoli, e avversata con zelo degno di miglior causa dai governator­i meridional­i, non cambia nulla, dal punto di vista fiscale. Anzi, con la definizion­e di «livelli essenziali di protezione» tarati sulle regioni «virtuose» come Lombardia e Veneto, potrebbe accrescere i trasferime­nti al Sud.

Alla «questione settentrio­nale» ha nuociuto una narrazione paradossal­e, per la quale il Nord, nel quale si paga il grosso delle imposte, proprio perché produttivo e imprendito­riale è stato fatto passare per la culla dell’evasione. Ma ha anche nuociuto l’incapacità di discutere seriamente della «questione meridional­e».

Al di là delle iniziative speciali, gli stessi trasferime­nti ordinari concentran­o risorse nel pubblico impiego, rendendo le carriere all’ombra dello Stato molto più attrattive di tutte le altre. La lunga storia degli «aiuti al Meridione» non ha prodotto sviluppo ma ha depresso, in quelle regioni, il settore privato. Il Pil pro capite nel Sud resta la metà che al Nord. Prendere sul serio la «questione settentrio­nale» poteva servire a fare chiarezza.

Il paradosso

Alla «questione settentrio­nale» ha nuociuto anche l’incapacità di discutere seriamente della «questione meridional­e»

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