«Noi piccoli calciatori, con l’arbitro in tonaca»
Anni 50/60 al mio paese natale. Erano i tempi del boom del geloso scambio delle figurine Panini dei calciatori. Per procacciarsi un Altafini (Milan) noi ragazzini dovevamo cacciare un Sivori (Juve), un Bulgarelli (Bologna) e un Sarti (Inter) assieme. Finito lo scambio, tutti sul campo gioco di calcio, il sagrato sterrato della chiesa con in centro il monumento ai caduti protetto da quattro paracarri in granito (quante sbucciature sulle gambe!). Le porte erano segnate da sassi aguzzi (i portieri privi di guanti, quante noccolate!). Arbitro il parroco in tonaca che si assentava per andare a confessare, altrimenti un giocatore «emerito» (che non se la sentiva più di giocare per raggiunti limiti di età calcistica). Quasi sempre il pallone era floscio, ragion per cui occorrevano calci all’ennesima potenza per lanciarlo. Il sagrato della chiesa era senza protezione a strapiombo sui terreni sottostanti. Se capitava (e capitava ogni due per tre) che il pallone vi precipitasse, l’ultimo ad averlo toccato doveva recuperarlo. Sì, ma dove? In qualche cunetta stradale? Lungo i filari delle vigne? Nei solchi dei campi arati? Nella fossa del letame? Non ve n’erano di rimpiazzo. Se la partita era di due tempi, alla fine durava ore per via dei tempi di recupero del pallone. Si arrivava a casa con le scarpe impolverate e mezzo sfatte. L’indomani, via di corsa dal «calighè» (calzolaio) a farle aggiustare e se ti diceva che erano da buttare, niente più partite per qualche tempo. Il che voleva dire crisi di astinenza. Come superarla? Giocando con lo striminzito pallone dato in omaggio comprando in negozio l’ovomaltina. Da solo, nel cortile. Alessandro Prandi, Poggiridenti (Sondrio)
Il nostro lettore ricorda quando da bambino giocava a calcio sul sagrato della chiesa. Il pallone spesso finiva in un dirupo e si doveva andare a recuperarlo