Un socialista amante della libertà Perché Mussolini temeva Matteotti
Non si è mai riflettuto a fondo sulla circostanza nella quale matura il primo momento di forte consenso popolare di cui Mussolini ha goduto. Sono i primi giorni del 1925 e il capo del fascismo in Parlamento rivendica la responsabilità dell’assassinio di uno dei capi dell’opposizione, Giacomo Matteotti: «Ebbene, io dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea, ed al cospetto di tutto il popolo italiano, che assumo (io solo!) la responsabilità (politica! morale! storica!) di tutto quanto è avvenuto».
Con queste parole, con l’assassinio del leader del riformismo italiano, il fascismo si definisce come regime autoritario e inizia la sua lugubre avventura.
Consenso per un omicidio.
Paura della violenza insita nel fascismo o ammirazione per l’uomo forte che interrompe l’agonia dei governi e governicchi della fase ante marcia su Roma e promette ordine, non importa se a scapito della libertà di pensare e di dire?
Sono dunque due i motivi che rendono l’omicidio Matteotti uno dei momenti più rilevanti della storia italiana del Novecento. La decisione di far uccidere un avversario politico e la sua rivendicazione, nel silenzio del re fellone e nel consenso di un popolo confuso e impaurito.
Ma Matteotti non è solo una stele sul lungotevere dove fu prelevato dagli scherani di Mussolini.
Giacomo Matteotti è stato, bisogna ribadirlo, uno dei leader più importanti dell’antifascismo e della sinistra italiana.
Il bel libro di Antonio Funiciello Tempesta, in libreria oggi per Rizzoli, si occupa proprio di indagare la vita politica, le idee, la formazione del capo dei socialisti riformisti. Il suo sottotitolo La vita (e non la morte) di Giacomo Matteotti ci guida subito in un precorso di lettura in cui domina la politica, non la pur necessaria ricostruzione dei fatti, certo anch’essi politici, che portarono alla decisione di ucciderlo e poi di rivendicarne l’esecuzione.
Il libro si ferma proprio alla soglia degli eventi del giugno 1924.
«Ridurlo a un santino senz’anima dell’antifascismo, dimenticando o nascondendo il suo pensiero dietro mille frasi fatte, è un’altra offesa alla sua intelligenza, prima ancora che alla sua memoria. Matteotti è un socialista riformista, che cerca la collaborazione con i partiti borghesi progressisti. Non spiegare il suo antifascismo a partire dalla sua ideologia politica è un modo per confonderne il ricordo e cancellarne la lezione», scrive Funiciello nella sua introduzione.
Scorre in tutte le pagine la biografia di un leader, non solo e non tanto di una vittima. A cominciare dalla natura della sua formazione culturale, ricca, della sua esperienza tra i contadini del Rodigino, dell’influenza decisiva della tradizione liberal-democratica nel suo pensiero riformista e socialista e, in primo luogo, nel suo antifascismo.
Matteotti è un uomo politico rigoroso, contesta il fascismo per i brogli elettorali, per le violenze che documenterà una ad una, per la corruzione della quale si sarebbe occupato in un temuto discorso parlamentare che solo la morte gli impedirà di pronunciare. Fa soffrire il fascismo per la puntualità delle sue denunce, per la ricerca attiva di soluzioni politiche, non solo parole, atte a evitare l’insediamento del fascismo.
Nel febbraio del 1922 insieme a Turati cerca, dopo la crisi del governo Bonomi, di dar vita a un esecutivo presieduto da De Nicola insieme ai liberali di Giovanni Amendola e ai popolari di Sturzo. Ma quel tentativo fallirà perché socialisti massimalisti e comunisti lo bloccheranno. Nasceranno poi gli ultimi governi dell’italia prefascista, quelli guidati dal fragile Facta.
Ancora nel 1923 si creeranno le condizioni per una bocciatura della legge elettorale proposta da Acerbo. In commissione e in aula la maggioranza potrebbe affossarla, ma le titubanze dei popolari, dei seguaci di Bonomi e dei liberali rendono possibile l’approvazione delle nuove regole che creeranno un Parlamento in camicia nera, come profetizzato da Turati che in aula disse: «Siamo forse a una delle ultime sedute della vecchia Camera, anzi della vecchia Italia».
Occasioni perdute. Come spesso è accaduto. Per divisioni, riflessi ideologici, incapacità di analizzare e sceverare, di fare politica. Funiciello ricorda un discorso di Gramsci, che sarà anche lui vittima del fascismo, in cui tutto viene messo sullo stesso piano, indicando come obiettivo quello di «abbattere non solo il fascismo di Mussolini e Farinacci, ma anche il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati».
Matteotti fu il primo segretario del Partito socialista unitario nato per l’espulsione dal Psi dei riformisti, accusati proprio di aver tentato un governo per impedire l’avvento di Mussolini. In quel partito si ritroveranno Pertini, Rosselli, Treves e Ferruccio Parri. Sarà il primo ad essere sciolto dal fascismo. Nel 1924, alle elezioni vinte plebiscitariamente dalla lista di Mussolini, il Psu riuscirà ad essere, anche se con il cinque per cento, il partito di sinistra più votato.
Ripensare Matteotti, come fa Funiciello, ci aiuta a capire, per ieri e per oggi, le tante occasioni perdute per dar vita a una sinistra riformista unitaria, capace di coniugare libertà e giustizia sociale.
Il grande sogno di Tempesta, come fu chiamato dal popolo il leader del riformismo italiano ucciso da Mussolini.