Arte, la Biennale di tutti i colori
Sabato al via la sessantesima edizione, curata da Adriano Pedrosa. Molta pittura, autori militanti, voci del Sud del pianeta e un paradigma culturale comune da decostruire: quello dell’occidente bianco e colonialista
VENEZIA Quanto colore e quanta pittura figurativa in questa 60ª Biennale d’arte che si inaugura sabato mattina! Quest’anno, oltreché da 87 padiglioni nazionali, la rassegna veneziana — progettata dall’ex presidente Roberto Cicutto e caduta sotto la nuova presidenza di Pietrangelo Buttafuoco — è costituita dalla mostra Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, firmata da Adriano Pedrosa, primo curatore sudamericano e, come ci tiene a sottolineare, queer. Queste due componenti della Biennale appaiono, teoricamente, quasi un ossimoro poiché la «carta di identità» degli artisti esposti da Pedrosa è quella di non avere nazione: apolidi, rifugiati, attivisti anticoloniali, espatriati, migranti, afrodiscendenti (gli stessi che Lesley Lokko chiamava «africani diasporici»), tutti rigorosamente «based in» o «moved to», come minimo con due o tre passaporti, meglio nessuno. No patria, sì party.
La mostra è così colorata che ci puoi portare anche i bambini, ma non siamo certo di fronte a una rivoluzione estetica. Anzi! Gli ultimi cinquant’anni di arte sono volutamente accantonati e, in questo periodo di guerre, anche alla Biennale si torna agli anni Settanta a combattere contro l’occidente del XX secolo. Ispirati dal pensiero di Edward Said e dai post colonial studies (che, però, hanno successo proprio negli Usa), l’occidente bianco e colonialista è il paradigma culturale da decostruire e al suo posto va data voce ai dominati del Sud del Mondo, i senza patria, gli stranieri, i fluidi, i queer, i disforici ...
La visita alle opere dei 331 artisti parte dalla esotica e lussureggiante facciata del Padiglione centrale ai Giardini dipinta dal collettivo brasiliano Mahku che ci introduce alla scritta al neon «Stranier* ovunque», sintesi, in una vocale ambigua, dell’esposizione stessa. Altra dichiarazione inequivocabile di intenti è la sala intitolata The Museum of the old colony tappezzata di fotografie sull’assoggettamento di Porto Rico agli Usa nel Novecento. Poi voci dall’esilio, un negletto Modernismo, la vasta ritrattistica sudamericana del Novecento ispirata ai canoni europei, Bertina Lopes con lavori materici contro la colonizzazione portoghese e Puppies Puppies che, nel sobrio giardino di Carlo Scarpa, propone Woman, un maschio normodotato (meglio l’altra opera che espone all’arsenale in ricordo dei queer massacrati nel 2016 nella Latin night a Orlando). L’immancabile decostruzione della religione cattolica è attuata con un filmato dell’afrodiscendente Fred Kuwornu, che è andato a scoprire un san Benedetto nero, ovvero san Benedetto il Moro nella Palermo del Seicento. Quello che mette sotto accusa il
omosessuali, ma non aprirà sino a quando «saranno rilasciati gli ostaggi e raggiunto un accordo». Amen. Di qualità il mosaico di Omar Mismar con i volti dei due omosessuali pixelati mentre Bouchra Khalili raccoglie in ossessivi filmati le mappe dei migranti che passano per l’italia. Una installazione di Bárbara Sánchez Kane con tre militari perforati da una asta d’oro «decostruisce e disseziona la idea di mascolinità».
Gli 87 padiglioni, compreso Israele che non apre (una «scelta molto coraggiosa, che rispetto», ha dichiarato Pedrosa), declinano gli stessi temi, presentano altrettanti colori, ma con installazioni di qualità legate all’evento e difficilmente musealizzabili: arte, design e performance sonore si sovrappongono.
Ai Giardini, le sculture arcobaleno di Jeffrey Gibson (Padiglione Usa) raffigurano figure «della cultura indigena, queer e subpopolare americana». La Russia non espone e ha prestato il padiglione alla Bolivia mentre la Germania, come al solito, ha distrutto il suo per trasportarci, con Thresholds di Yael Bartana, in un futuro fluido e senza gravità. Il Padiglione della Gran Bretagna, con Listening All Night to the Rain di John Akomfrah, presenta filmati ispirati alle pale d’altare che richiamano all’ecologismo e al postcolonialismo. Sensoriale il Padiglione francese di Julien Creuzet, che presenta sulla facciata la danza delle statue dei continenti che si decostruiscono e, all’interno, trame sviluppate dalla forma di una tarantola della Martinica. Ancor più sinestetico quello del Giappone, dove l’odore è dato da caravaggesca frutta avariata sopra le mensole.
All’arsenale, nel piccolo padiglione ucraino Andrii Rachynskyi e Daniil Revkovskyi hanno montato in un filmato duecento video di vita quotidiana sotto i bombardamenti registrati dagli abitanti. Con Irina Eldarova il Padiglione dell’azerbaigian mischia l’immagine pop di Marilyn con il Realismo socialista; l’arabia Saudita riproduce la «voce del deserto»; il Benin ha ideato il proprio padiglione sulla base dei beni restituiti e non dalla Francia, che aveva occupato il Paese in età coloniale. Da segnalare la performance in uno spazio futuribile del Lussemburgo e l’archivio dei pigmenti proposto da Singapore.
Furono Marcuse e Sartre ad affidare all’arte il ruolo di strumento per criticare le storture della società capitalistica dandole un compito di militanza che le Biennali e le Documenta di Kassel non hanno (quasi) mai abbandonato, bensì declinato individuando nuovi obiettivi e nuovi portabandiera (le donne, i neri, i dominati, gli afrodiscendenti, i disforici…). Prima o poi le arti dovranno saper riconnettere etica ed estetica, testimonianza e creazione poiché sembra che dove ci sia l’una arretri l’altra. In questo periodo di grandi sconquassi internazionali difficile che la Biennale 2024 possa bissare il record di 800 mila visitatori, che le ha permesso di superare Documenta. Il 28 aprile, comunque, nel Padiglione della Santa Sede arriva Papa Francesco. Ad accoglierlo i piedi sporchi di Cattelan sulla facciata: questa sì arte, sotto il segno della citazione e dell’ironia.