Voglia di riscatto delle donne in una commedia «all’antica»
«Cattiverie a domicilio», la storia vera di insulti e oscenità spediti via posta
Quando vedo un film à l’ancien come questo Cattiverie a domicilio, non posso fare a meno di pensare a Truffaut e al suo anatema contro il cinema d’oltremanica, quando giovane turco della critica parigina se ne uscì con l’affermazione che «il cinema inglese non esiste» perché il paladino della Nouvelle Vague non poteva accettare film che avessero i loro pilastri in una sceneggiatura ben scritta, in una recitazione professionale, in una regia preoccupata soprattutto di dialogare col pubblico. In un cinema «all’antica» insomma.
Oggi i tempi sono cambiati, anche la Nouvelle Vague è stata contestata e scalzata da nuovi modi di intendere il cinema, ma quei vecchi pregiudizi fanno fatica a sparire e finiscono per non far apprezzare il lavoro di chi, come una volta, vede nella recitazione, nella costruzione dei personaggi e dei rispettivi caratteri, nell’attenzione alle scenografie e ai costumi — in una parola: nel piacere della messa in scena — uno dei tanti modo di fare cinema. Come succede per questo Cattiverie a domicilio (in originale Wicked Little Letters) che lo sceneggiatore Jonny Sweet ha tratto da una storia accaduta cent’anni fa a Littlehampton, nel Sussex e Thea Sharrock ha diretto.
La devota «signorina» Edith Swann (Olivia Colman, sempre più brava) si vede recapitare dalla posta una serie di lettere anonime dove è apostrofata nei modi più volgari e inventivi possibili. Definirlo linguaggio da caserma o da scaricatore di porto è fare un complimento a quella serie di insulti a sfondo sessuale che una mano misteriosa si incarica di vergare. Fosse per lei lascerebbe correre, il suo spirito cristiano la consiglia di dimenticare e perdonare, ma suo padre, Edward (Timothy Spall, altrettanto bravo), non transige: la figlia, che vive ancora con lui e la madre (Gemma Jones) deve assolutamente sporgere denuncia. Anche perché lui un’idea di chi possa essere l’autore, anzi l’autrice, ce l’ha: la vicina di casa Rose Gooding (Jessie Buckley), arrivata dall’irlanda con la figlia adolescente Nancy (Alisha Weir), senza marito (morto in guerra dice lei) e un compagno (di colore) giovane e aitante (Malachi Kirby).
A dir la verità, i sospetti di Edward sono piuttosto delle certezze: troppo allegra Rose, troppo spregiudicata (frequenta anche il pub e non disdegna la birra e le freccette) per non essere lei l’autrice di quelle lettere. Troppo intuitivo invece il pubblico per non capire che questa accusa non dovrebbe reggere la prova dei fatti, ma da una parte siamo nell’inghilterra del primo dopoguerra dove i reduci — come Edward, che ha anche avuto due figli morti al fronte — sono equiparati a degli eroi nazionali e i maschi (vedi il tronfio capo della locale stazione di polizia) non possono nemmeno pensare che la loro parola venga messa in discussione. E dall’altra parte è proprio il piacere di quella messa in scena che definirei «all’antica» a volere che il gusto di tratteggiare i caratteri e di schizzare le psicologie si prenda il suo tempo. Quasi che volesse far credere allo spettatore di essere lei stessa, la messa in scena, finita nella rete della propria abilità.
Poi, però, pian piano prendono forma altre figure: quella dell’«agente donna Gladys Moss» (Anjana Vasan), per la storia la prima poliziotta del Sussex, e le amiche Ann (Joanna Scanlan), Mabel (Eileen Atkins) e Kate (Lolly Adefope), tutte e tre convinte dell’innocenza di Rose e decise ad evitarle una condanna che considerano ingiusta.
A un certo punto del film il vero autore delle lettere anonime viene svelato al pubblico, che qualcosa (o anche di più) aveva intuito, ma sarebbe un errore scambiare questo film per un court drama o giù di lì. La sua forza (e il suo piacere) sono proprio nel modo in cui tratteggia ogni personaggio, ce lo stampa nella mente, ci fa parteggiare per questo o per quello. Senza dimenticare ogni tanto di far cadere una notazione sulla voglia di riscatto delle donne (quell’allusione ai trattori guidati durante la Grande Guerra, quando non c’erano uomini per lavorare. Con la pretesa che poi ritornassero al loro posto) o la supponenza maschile.