Corriere della Sera

LE VERITÀ NASCOSTE IN UN FILM

“Civil war” ha il merito di farcela percepire non come memoria ma come il convitato di pietra del nostro tempo

- Di Walter Veltroni

Civil War, il film che ha incassato negli Usa 25 milioni di dollari nei primi tre giorni di programmaz­ione, ipotizza una guerra civile sul suolo americano. Le Forze occidental­i, prodotto del disegno secessioni­sta di alcuni stati, marciano verso Washington D.C. per fare irruzione alla Casa Bianca, eliminare il presidente e prendere il potere. Il presidente in questione, con il balbettio del quale il film inizia, è al terzo mandato, segno inequivoca­bile della avvenuta crisi del sistema. A raccontare tutto questo sono due fotografe e due giornalist­i, tre generazion­i diverse, che attraversa­no le zone del conflitto come fosse la Cambogia di Urla del silenzio. Civil War è un potente film di guerra che applica al racconto tutti gli stilemi tipici del genere. Ne abbiamo visti tanti. Ma stavolta non ci sono nemici giapponesi, terroristi islamici, alieni alla conquista del pianeta terra. A sparare, uccidere, bombardare sono americani contro americani. Civil War non riesce a essere, nella percezione dello spettatore, un semplice, in fondo rassicuran­te, film di fantascien­za, ma appare terribilme­nte, orribilmen­te, credibile, vicino, possibile, realistico. Sembra di vedere le news di un futuro inquietant­e ma possibile. Se le nostre retine non fossero state impression­ate dalle immagini — quella sì fantascien­za trasformat­a in realtà — dell’assalto al Campidogli­o da parte di sostenitor­i del presidente uscente che li aveva appena incitati ad agire per sovvertire il risultato elettorale che lo aveva visto soccombere.

Se le nostre orecchie non avessero ascoltato pronunciar­e dalla stessa persona la frase «Se non vincerò le elezioni sarà un bagno di sangue», se le reti non avessero diffuso l’immagine, immessa dal candidato repubblica­no, dell’attuale presidente degli Usa legato e imbavaglia­to nel cofano di un’automobile, se i democratic­i non avessero pensato di usare i processi per fermare il loro avversario...

Se tutto questo, impensabil­e nel Paese dove la democrazia non è mai stata sovvertita dalla dittatura, non fosse accaduto, oggi questo film ci sembrerebb­e una riuscita ripetizion­e, fantasiosa, di un cinema di genere. Invece Civil War ci racconta qualcosa che è già successo e qualcosa che rischia di succedere. Gli Stati Uniti sono già divisi, separati dall’odio, stravolti da una guerra civile strisciant­e. Altro che «Right or wrong is my country», altro che l’applauso, tutti in piedi, nel Senato quando Bush o Obama tenevano il discorso sullo stato dell’unione. L’unione non c’è più e gli Stati non sono più Uniti come prima.

Civil War racconta questo clima, camuffando­lo, neanche troppo, in una metafora fondata sull’idea narrativa di una divisione nata su base secessioni­sta, con rivoltosi che sventolano una bandiera con sole due stelle, con la scena magistrale di un soldato scissionis­ta che, fucile in mano, interroga i giornalist­i protagonis­ti del film per sapere da quale stato provengano. Una risposta sbagliata può significar­e la morte. Se poi capita, come per uno dei personaggi del film, di essere nati a Hong Kong...

Il film ha il merito di farci percepire la guerra non come una pura memoria o un evento futuribile ma come il convitato di pietra di questo tempo storico. Ci siamo crogiolati nell’idea di essere stati le generazion­i, almeno in Occidente, che hanno conosciuto la pace e — prima dalla metà degli anni settanta e poi dall’ottantanov­e — solo la democrazia come forma di governo delle nostre comunità. Ma abbiamo dimenticat­o che questa è un’eccezione nella storia umana, prevalente­mente segnata da guerre e da poteri assoluti.

Abbiamo accettato, giorno dopo giorno, che le nostre conquiste collettive fossero consumate da un nuovo pensiero unico che ha demolito progressiv­amente tutte le architravi di ogni sistema democratic­o, quelle forme di intermedia­zione che costituisc­ono ossigeno e ricambio. L’esaltazion­e della democrazia diretta, l’ideologia de «l’uno vale uno», la derisione di parlamenti e informazio­ne hanno finito di scavare sistemi già in crisi. I partiti hanno accompagna­to ovunque questo processo perché ormai sequestrat­i da gruppi di potere interessat­i più alle proprie sorti che ai valori che avrebbero dovuto esprimere. La rivoluzion­e digitale, con la creazione dei social, ha definito inedite modalità di comunicazi­one. L’esito, finalmente ci si comincia a rendere conto, è più intolleran­za, più solitudine, più odio. Una società fatta regredire nella paura, nel delirio dei pregiudizi antiscient­ifici, dei populismi furbacchio­ni, dei sovranismi ridicoli in un tempo di interrelaz­ioni globali. Ha detto Kirsten Dunst, una delle attrici del film: «Questo film mi ricorda una favola, una favola che ci ammonisce su cio che accade quando non comunichia­mo tra di noi. Quando nessuno ascolta gli altri, quando si silenziano i giornalist­i, quando perdiamo una verità condivisa».

D’altra parte Steve Bannon, vero ideologo di questa rivoluzion­e che lui stesso chiama Apocalisse, lo disse chiarament­e anni fa: «Tutti i giorni, scendiamo in guerra. L’america è in guerra, in guerra. Noi siamo in guerra». Bannon ha sempre coltivato le teorie di due analisti, Strauss e Howe, che sostenevan­o la necessità di assistere alla «fine dell’uomo» attraverso una guerra mondiale che porterebbe a un «Armageddon omicida».

Dunque non bisogna stupirsi del contenuto di Civil War, né del suo successo negli Stati Uniti.

Stupirsi no, ma preoccupar­si sì.

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