Luoghi sottratti al dominio della tecnica
Nel romanzo di Jeff Vandermeer Annientamento (Einaudi, 2015), l’area X è una porzione di mondo in cui la realtà appare distorta, gli esseri in costante mutazione e ogni classificazione complicata. Al contrario della Zona dei fratelli Strugackij, portata sul grande schermo da Tarkovskij, essa si sta allargando, invadendo il resto del mondo con i suoi animali ibridi e la vegetazione debordante. Ma non è il selvatico che, alterato, ritorna, così come non è la natura con la N maiuscola. È invece un luogo di eterno confine, di costante mescolamento, un’interfaccia grazie alla quale l’umanità perde i suoi attributi per diventare estesa, liquida, connessa.
Anche la Terra, quella vera, è piena di luoghi simili. Stanno al di là della cultura, cioè del mondo coltivato, recintato, dominato dalla tecnica e occupato dall’umanità. Nel nuovo libro dell’antropologo Adriano Favole La via selvatica (Laterza, pagine 160, 16) tutti assieme sono il grande incolto, quanto la civiltà occidentale non è riuscita a governare. Qui, ai margini di infrastrutture e campi, lontano da piantagioni e centri produttivi, la relazione fra umano e non umano è vibrante, ricca di significati, dialogica.
La via selvatica è un gioco di rimbalzi, dal Piemonte all’oceania, in cui Favole racconta realtà alternative, dove la divisione fra natura e cultura sembra non essere arrivata. Gli squats, le abitazioni aperte all’incolto che circondano la città di Nouméa, in Nuova Caledonia; le colture semi-selvatiche di tuberi come l’igname, il taro o la manioca praticate negli arcipelaghi del Pacifico; le radure fra i boschi della valle Pesio, che i piemontesi chiamano giass, in cui crescono spinaci ed erbe spontanee.
Oltre a escursioni nei luoghi cari all’autore, non mancano riferimenti a studi etnografici e riflessioni sul paesaggio che oggi alimentano il dibattito antropologico: i funghi matsutake di Anna Tsing, il terzo paesaggio di Gilles Clément, il nuovo racconto della storia umana di David Graeber e David Wengrow. Tutto, assieme, appare come un densissimo riassunto dei modi in cui abbiamo inteso il confine fra umanità e mondo esterno: se l’occidente l’ha sigillato e disciplinato ovunque, altrove esso è stato inteso come poroso, soprattutto presso i popoli indigeni che hanno vissuto e in alcuni casi vivono tuttora in relazione stretta con quella che soltanto noi chiamiamo natura.
Alcune pagine di Favole restano impresse, e non soltanto per la prosa chiarissima ed evocativa, come nella migliore tradizione etnografica. Più che un nuovo nome per l’epoca attuale (l’ennesimo e forse superfluo), più che le riflessioni filosofiche e lessicali sui concetti di natura e cultura, spiccano i concetti di rahui e tapu, quest’ultimo all’origine della nostra parola tabù. In modi diversi, identificano quelle pratiche oceaniane di tutela di risorse e luoghi considerati sacri che avevano e hanno come obiettivo la salvaguardia del legame fra umanità e terra, fra umanità e oceano. Sottolineano come il concetto di sostenibilità fosse già presente in nuce ben prima del Novecento. Un concetto che oggi, tuttavia, non possiamo più permetterci di impiegare abitando vite scollegate dall’incolto, dal mondo non umano e dal carico di esistenze e diversità che esso sostiene. «In ballo», scrive l’autore, «c’è la sacralità delle fabbriche della vita». Quei luoghi ibridi, carichi di biodiversità e possibilità che, al contrario dell’area X raccontata da Vandermeer nei suoi romanzi, sono in costante contrazione.