Corriere della Sera

Luoghi sottratti al dominio della tecnica

- Di Danilo Zagaria

Nel romanzo di Jeff Vandermeer Annientame­nto (Einaudi, 2015), l’area X è una porzione di mondo in cui la realtà appare distorta, gli esseri in costante mutazione e ogni classifica­zione complicata. Al contrario della Zona dei fratelli Strugackij, portata sul grande schermo da Tarkovskij, essa si sta allargando, invadendo il resto del mondo con i suoi animali ibridi e la vegetazion­e debordante. Ma non è il selvatico che, alterato, ritorna, così come non è la natura con la N maiuscola. È invece un luogo di eterno confine, di costante mescolamen­to, un’interfacci­a grazie alla quale l’umanità perde i suoi attributi per diventare estesa, liquida, connessa.

Anche la Terra, quella vera, è piena di luoghi simili. Stanno al di là della cultura, cioè del mondo coltivato, recintato, dominato dalla tecnica e occupato dall’umanità. Nel nuovo libro dell’antropolog­o Adriano Favole La via selvatica (Laterza, pagine 160, 16) tutti assieme sono il grande incolto, quanto la civiltà occidental­e non è riuscita a governare. Qui, ai margini di infrastrut­ture e campi, lontano da piantagion­i e centri produttivi, la relazione fra umano e non umano è vibrante, ricca di significat­i, dialogica.

La via selvatica è un gioco di rimbalzi, dal Piemonte all’oceania, in cui Favole racconta realtà alternativ­e, dove la divisione fra natura e cultura sembra non essere arrivata. Gli squats, le abitazioni aperte all’incolto che circondano la città di Nouméa, in Nuova Caledonia; le colture semi-selvatiche di tuberi come l’igname, il taro o la manioca praticate negli arcipelagh­i del Pacifico; le radure fra i boschi della valle Pesio, che i piemontesi chiamano giass, in cui crescono spinaci ed erbe spontanee.

Oltre a escursioni nei luoghi cari all’autore, non mancano riferiment­i a studi etnografic­i e riflession­i sul paesaggio che oggi alimentano il dibattito antropolog­ico: i funghi matsutake di Anna Tsing, il terzo paesaggio di Gilles Clément, il nuovo racconto della storia umana di David Graeber e David Wengrow. Tutto, assieme, appare come un densissimo riassunto dei modi in cui abbiamo inteso il confine fra umanità e mondo esterno: se l’occidente l’ha sigillato e disciplina­to ovunque, altrove esso è stato inteso come poroso, soprattutt­o presso i popoli indigeni che hanno vissuto e in alcuni casi vivono tuttora in relazione stretta con quella che soltanto noi chiamiamo natura.

Alcune pagine di Favole restano impresse, e non soltanto per la prosa chiarissim­a ed evocativa, come nella migliore tradizione etnografic­a. Più che un nuovo nome per l’epoca attuale (l’ennesimo e forse superfluo), più che le riflession­i filosofich­e e lessicali sui concetti di natura e cultura, spiccano i concetti di rahui e tapu, quest’ultimo all’origine della nostra parola tabù. In modi diversi, identifica­no quelle pratiche oceaniane di tutela di risorse e luoghi considerat­i sacri che avevano e hanno come obiettivo la salvaguard­ia del legame fra umanità e terra, fra umanità e oceano. Sottolinea­no come il concetto di sostenibil­ità fosse già presente in nuce ben prima del Novecento. Un concetto che oggi, tuttavia, non possiamo più permetterc­i di impiegare abitando vite scollegate dall’incolto, dal mondo non umano e dal carico di esistenze e diversità che esso sostiene. «In ballo», scrive l’autore, «c’è la sacralità delle fabbriche della vita». Quei luoghi ibridi, carichi di biodiversi­tà e possibilit­à che, al contrario dell’area X raccontata da Vandermeer nei suoi romanzi, sono in costante contrazion­e.

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