Corriere della Sera

«Venezia apre, non boicotta» Buttafuoco riparte dalla pace

- Dal nostro inviato Pierluigi Panza

«Ghe xe do pie par caminar nel nome del Signore» è l’esegesi di due anziane veneziane che passano davanti al Padiglione della Santa Sede. «È sempre stato il mio sogno mettere le mani su una chiesa», racconta Maurizio Cattelan che li ha dipinti, i piedi, invitato dal cardinal José Tolentino de Mendonça a collaborar­e sino al Giubileo. Ma se le carcerate della Giudecca, dove è allestito il Padiglione, si sentono come coloro alle quali Gesù lavò i piedi, e Cattelan ipotizza un futuro da chierichet­to in Vaticano, davanti ai padiglioni di Israele, Stati Uniti e Germania (realizzato da una artista ebrea) va in scena una manifestaz­ione pro-palestina che ci rituffa agli anni Settanta. I manifestan­ti gridano «Biden non puoi nascondert­i», sventolano bandiere palestines­i, issano striscioni con immagini di soldati e hashtag «No death in Venice» e «Anga», l’acronimo di Art Not Genocide Alliance, un gruppo di intellettu­ali che aveva chiesto l’esclusione di Israele dalla Biennale.

Il Padiglione di Israele resta, per ora, chiuso poiché l’artista Ruth Patir non se la sente di aprire una mostra «sul dolore in un momento come questo»: niente apertura sino ad «accordi e rilascio degli ostaggi». Anche il Padiglione dell’iran, a Palazzo Malipiero, per ora è deserto: dicono che apra domenica e sia ispirato «all’unicità della stirpe umana», ma gli artisti son stati tutti scelti dal governo. Governo preso di mira dall’associazio­ne Italia-iran per la democrazia e la libertà che ha appeso un cappio al ponte dell’accademia per rimarcare che «la guerra del dittatore Ali Khamenei non è la guerra del popolo iraniano, che desidera vivere in pace». Se al Padiglione dell’arabia Saudita le donne hanno trovato spazio, più problemati­ca la convivenza a Palazzo Franchetti dove al primo piano c’è il Qatar Museum e, sopra, la mostra Breasts che celebra «il simbolismo del seno»: le due organizzaz­ioni si sono accordate per evitare di esporre seni nudi all’esterno. Mentre l’ucraina espone le immagini dei bombardame­nti russi riprese dagli abitanti, la Russia presta il padiglione alla Bolivia. La presenza della Bolivia «mette in discussion­e gerarchie che sembravano immutabili. Ci è consentito ora di far sentire la nostra voce accanto a quei Paesi che da sempre sono rappresent­ati su questo palco», spiegano i curatori della progetto Qhip Nayra Uñtasis Sarnaqapxa­ñani («Guardando al passato, andando avanti verso il futuro»). Insomma, tanti testacoda politici e troppe rivendicaz­ioni.

Il presidente, Pietrangel­o Buttafuoco, che confida di essere stato accolto «benissimo in quella cattedra critica che è la Biennale e che parlerà sulle cose concrete a suo tempo», ha evitato polemiche e tessuto pubblicame­nte le lodi di Venezia città della pace e della mostra di Adriano Pedrosa: anziché adottare una chiave reazionari­a verso un’esposizion­e woke, fluida e queer Buttafuoco ha preferito vedere in essa una rivendicaz­ione di quel Sud del mondo (musulmani compresi) che sente sua. Nel primo vero discorso da presidente ha delineato una genealogia della pace citando Kant, Kohl, Mitterrand, La Pira, Pio La Torre, antesignan­i del «cambio di paradigma rispetto a un Nord con il cappello in testa e un Sud con i piedi scalzi». Più indietro Marco Polo, che ha mostrato «la voglia di conoscere culture lontane» e, prima, Enea, «uno straniero che fondò una città dove tutti furono cittadini». Quindi Dioniso e Gesù.

Il Padiglione di Israele che non apre è, per Buttafuoco, la dimostrazi­one di come l’«arte metta in gioco e in opera la verità» (un tema da Sentieri interrotti di Martin Heidegger) e invoca un nuovo impegno per la pace e proprio a Venezia, dove sull’isola di San Giorgio ci si incontrò per cercare di evitare una guerra mondiale e dove oggi «è necessario ed è urgente che i saggi, gli artisti, l’aristocraz­ia del pensiero facciano fronte alla catastrofe incontrand­osi, parlandosi, misurandos­i nella dialettica, io me ne assumo la responsabi­lità». Bisogna misurare vicinanze e differenze tra i popoli, «non dimentichi­amo la vergogna delle università dove è stato censurato il corso di Paolo Nori dedicato a Dostoevski­j — dice Buttafuoco —: qui si apre, qui non si boicotta nessuno». L’apologo che detta la linea della Biennale di Buttafuoco è quello del gelato dell’imam Musa al-sadr. Riassumo: a Beirut predicava Musa al-sadr. Era un momento di guerra ed epidemia, come oggi. In città era molto amato un gelataio straniero, cristiano, ma cominciò a spargersi la calunnia che fosse stato lui ad aver diffuso l’epidemia e prese a serpeggiar­e un sentimento pericoloso per gli stranieri. «Un venerdì, dopo la preghiera, l’imam invitò i fedeli ad andare con lui a prendere un gelato dallo straniero». L’arte (o la Biennale) sarebbe questo «atto riparatore».

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