Le macerie morali di un’america distopica
In America ora si parla di Civil War, l’allarmante film che l’inglese Alex Garland ha pensato distopico-catastrofico ma che non sembra oggi così fantastico e impossibile. Si riparla dopo 150 anni di guerra civile, di cui l’assalto a Capitol Hill del ’21 fu il prequel, s’immagina un Fronte Occidentale che riunisca California e Texas e combatta l’indipendenza dalla Casa Bianca, dove siede un presidente non sappiamo di che partito ma che vuole sciogliere L’FBI.
Washington è la mèta dove vogliono arrivare reporter e fotografi newyorkesi, cinici nuovi eroi, percorrendo 1300 km. con le fattezze polverose, sanguinarie di un road movie che ci mostra un’america distrutta, l’empire State Building sullo sfondo, morti, rovine, fosse comuni, un orrore continuo e infinito che somiglia alle scene di guerra dei tg: una vicina fine del mondo.
Tra la mini fauna di umanità editoriale, un maniaco miliziano (che paura Jesse Plemons), l’esperta fotografa (Kirsten Dunst) che insegna il mestiere alla neofita Cailee Spaeny, poi due giornalisti asiatici. Aveva tentato Joe Dante nel 97 di girare Seconda guerra civile american ma scivolò su una soap opera: ora i tempi, specie in Usa con le elezioni vicine, sembrano più idonei e questo film, macigno emotivo, mostra le macerie, non dà giudizi né riflette, si specchia nell’ambiguità di un inferno colmo di un senso di colpa collettivo che non ha risposto alle rivolte mondiali: è la premessa. Civil War è l’ultimo atto ma non sa a chi mandare il conto morale.
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