Corriere della Sera

La Pietà di Gaza Niente lacrime, niente sangue: soltanto dolore

- Di Paolo Di Stefano

«Occorre fare violenza (utile?) su sé stessi per indursi a parlare del destino dei più indifesi». È quanto scrive Primo Levi ne I sommersi e i salvati. Nella stessa pagina accennava ai bambini. Là i bambini, come le donne incinte e come i vecchi, purché ebrei, erano parte integrante e lucido del progetto di sterminio; in altre guerre, come quelle attuali, sono obiettivi secondari. Quantità trascurabi­le e inevitabil­e del nemico da abbattere. Pietà? È una parola oggi impronunci­abile e inascoltab­ile senza un’ombra, neanche tanto lieve, di ipocrisia. Muoiono bambini in Ucraina, muoiono bambini a Gaza e occorre fare violenza a sé stessi per indursi a parlarne. Per farsi meno violenza nel parlare dei più indifesi e per cogliere immediatam­ente il senso profondo della tragedia senza tanti giri di parole, riesce più facile attaccarsi alla grande poesia. In un testo famoso, Montale nel 1940, nel pieno dei «ciechi tempi», scrisse due versi che più di altri rimangono a futura memoria degli indifesi sommersi: «Ronzano élitre fuori, ronza il folle / mortorio e sa che due vite non contano». Versi universali validi per tutte le guerre. Giustament­e tutte le parole precedenti e quelle che verranno dopo, in questo articolo, sono sospettabi­li (anzi accusabili) di retorica. E dunque, tanto vale giocarsela bene, fino in fondo, questa condanna ineluttabi­le e dichiarare sottovoce che un mondo in cui un solo bambino muore sotto una bomba è un mondo che fa schifo. Non sfugge alla retorica dunque neanche la fotografia scattata da Mohammed Salem nella Striscia di Gaza. Bellissimo e inefficace documento che produrrà in tutti noi un attimo di pietà, un momento di umidità al ciglio, per questa Pietà che ricorda la «Madonna algerina» del 1997 e la «Pietà dello Yemen» di qualche anno fa. Ogni massacro ha la sua Pietà che testimonia il dolore di una madre. Cinquecent­o anni dopo Michelange­lo, ecco dunque l’ennesima Pietà aggiornata ai tempi, con Inas Abu Maamar, 36 anni, che culla il corpo di sua nipote Saly, uccisa, ci dice la didascalia, insieme alla madre e alla sorella, quando un missile israeliano ha colpito la loro casa a Khan Younis. Il pianto della donna è coperto dal velo, la morte della bambina è coperta dal sudario. E possiamo solo intuire l’uno e l’altra: nessuna lacrima, niente sangue. Diceva il grande fotografo Robert Capa che le guerre, quando diventano troppo lunghe, non sono più fotogenich­e. Anche per questo la bellezza di questa fotografia fa paura.

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