«Bisogna rafforzare Abu Mazen Alleanze con chi ci ha difeso»
Tzipi Livni, ex ministra degli Esteri israeliana: «Netanyahu non offre speranze, deve dimettersi»
Ai funerali della madre diciassette anni fa i veterani dell’irgun ricordavano di quando «Sara venne arrestata dai britannici nel 1947 e per scappare si iniettò del latte che le fece venire la febbre. Prese parte in numerose azioni contro gli arabi e gli inglesi. Le ore prima della missione con lei passavano veloci, cantava per noi con la sua bella voce».
Sulla lapide di famiglia è incisa una mappa di Israele come i capi delle milizie ultranazionaliste lo sognavano: uno Stato ebraico che comprendesse le due rive del Giordano fino al Mediterraneo. Piantati in mezzo, un fucile e una baionetta, con lo slogan: «Solo così». Solo così.
Senza quei compromessi che Tzipi Livni ha imparato ad accettare, quando ha lasciato il Likud e le posizioni massimaliste. Lei come Ariel Sharon ed Ehud Olmert, premier dei quali è stata ministra della Giustizia e degli Esteri, fino a essere la rivale che è riuscita a battere Benjamin Netanyahu alle elezioni, prescelta dagli israeliani ma scartata dai partiti religiosi che non erano disposti a trattare con una donna. Nel 2009 il suo Kadima (Avanti) è il primo partito, il governo lo forma però Netanyahu, che da allora è rimasto al potere, salvo 563 giorni all’opposizione tra il 2019 e il 2021.
Livni ha lasciato cinque anni fa la politica con le lacrime agli occhi, non la passione politica. È stata la donna più potente dopo Golda Meir, che il governo lo ha guidato. Nei mesi della protesta contro il piano giustizia voluto dalla coalizione di estrema destra al potere è salita sul palco delle manifestazioni a spiegarne i rischi per la democrazia. È quello che ripete adesso, quando le divisioni tra gli israeliani si sono ricomposte in parte dopo i massacri del 7 ottobre perpetrati dai terroristi di Hamas, ma restano le fratture ideologiche alimentate da Netanyahu e dai suoi alleati messianici. «Israele è stato creato come uno Stato ebraico e democratico. Non è possibile mettere la natura ebraica al di sopra di quella democratica. È invece quello che alcuni elementi nel governo vogliono ottenere. Senza rispetto per i diritti delle donne, delle minoranze, della comunità Lgbtq+ e nei loro progetti di annessione della Cisgiordania per quelli dei palestinesi».
Nel 2005 lei ha sostenuto assieme ad Ariel Sharon il ritiro da Gaza. La decisione è stata unilaterale, senza negoziati con il presidente palestinese Abu Mazen. Resta convinta di quella scelta?
«Ne parlai con Sharon, gli chiesi perché insisteva nel portare avanti il piano da soli. Mi rispose che altrimenti ci avremmo messo anni e non sarebbe mai successo. Era fondamentale evacuare le colonie, smantellare l’ideologia che strutture civili servano alla sicurezza di Israele. Quindi sono contraria all’idea di rioccupare Gaza, ma dobbiamo mantenere la possibilità di agire contro i terroristi dentro la Striscia».
È stata l’ultima rappresentante del governo a condurre i negoziati con Abu Mazen. Crede sia ancora possibile trovare un accordo?
«Netanyahu sta cercando di trarre le conclusioni sbagliate dal 7 ottobre. Io ho sempre sostenuto che dovessimo combattere Hamas ma rafforzare l’autorità palestinese. Lui ha attuato la strategia opposta e adesso cerca di ribadirla. Non abbiamo molto tempo, a novembre ci sono le elezioni negli Stati Uniti, Bibi ripete di non voler collaborare con Abu Mazen come chiedono il presidente Joe Biden e la comunità internazionale. All’attacco iraniano nella notte tra sabato e domenica si è opposta una coalizione a difesa di Israele: su questo dobbiamo continuare a costruire le alleanze regionali e ottenere che vengano inasprite le sanzioni contro Teheran».
Il bombardamento ordinato dal regime degli ayatollah ha ricreato quella solidarietà attorno a Israele seguita ai massacri nei villaggi a sud e dispersa con l’offensiva su Gaza, dove i palestinesi uccisi sono quasi 34 mila.
«Il resto del mondo non capisce la vera natura di Hamas. I fondamentalisti sono contro la soluzione dei due Stati, quindi chi li sostiene nelle manifestazioni in Europa o negli Stati Uniti non appoggia i palestinesi che vogliono vivere in pace».
Ai cortei di queste settimane migliaia di israeliani sono tornati a chiedere le dimissioni di Netanyahu e nuove elezioni.
«Prima succede meglio è. Questo governo non offre alcuna speranza, al Paese nel suo interno o nelle relazioni con i palestinesi».
Il futuro All’attacco iraniano si è opposta una coalizione: su quella dobbiamo continuare a costruire