«Le grandi città nell’ue devono contare di più Servono nuove regole»
Il sindaco di Barcellona Collboni a Milano
Ama le sfide Jaume Collboni, che da quasi un anno guida Barcellona come leader di un partito che ha la maggioranza più debole della storia recente nell’unica grande città progressista in Spagna.
«Non si stupisca — dice al Corriere a margine dell’incontro tenuto a Milano per il lancio della campagna di Pierfrancesco Maran per le Europee, presente il sindaco Beppe Sala —. Abbiamo una grande esperienza politica. Siamo il partito che ha governato Barcellona per 35 anni, gestito la sua trasformazione, fin dai Giochi Olimpici. Una conoscenza che sta tornando utile in questa fase in cui siamo in minoranza. Ci aiuta poi una struttura di potere che dà stabilità al governo municipale. Per esempio in caso non venga superata la fiducia legata all’approvazione del bilancio comunale, come è successo ora, c’è una clausola anti blocco che concede all’opposizione un periodo per proporre un sindaco alternativo. Se non lo trovano l’amministrazione non cade».
Lei è diventato sindaco grazie all’appoggio dei popolari. Avete dovuto poi fare loro delle concessioni?
«No, restiamo partiti antitetici, hanno anche votato contro alla fiducia sul budget. Hanno appoggiato la mia candidatura solo per evitare che vincesse il leader indipendentista. Sostenere me, per loro, è stato il male minore».
Lei vuole riconnettere Barcellona a Madrid e al resto della Spagna ma anche all’europa. Chiede che le città siano più protagoniste nelle istituzioni europee. Perché?
«Oggi le grandi città ospitano il 50% della popolazione europea. Sono l’ultimo miglio della politica europea: è qui
che si concentrano le contraddizioni e le sfide per il futuro dell’europa, dalla transizione ecologica al problema della casa. Ma la nostra importanza nel risolvere questi problemi non corrisponde al nostro peso istituzionale nell’architettura europea. Chiediamo che nella riforma dei Trattati per l’allargamento dell’ue sia introdotta la consultazione vincolante delle grandi città europee».
Può essere considerata
questa una forma diversa di autonomia rispetto a quella rivendicata dai partiti indipendentisti?
«Il mio lavoro oggi è quello di riposizionare Barcellona all’interno dello Stato spagnolo dopo gli anni di instabilità politica legata al processo indipendentista catalano. Io mi considero sindaco della capitale della Catalogna ma anche sindaco della co-capitale della Spagna, visto il peso economico, culturale e scientifico di Barcellona».
L’incognita Puigdemont nelle elezioni catalane del 12 maggio può mettere in difficoltà il capo del governo Sánchez?
«Tutti i sondaggi dicono che il partito socialista vincerà le elezioni. Credo che il messaggio di Puigdemont guardi al passato, un invito a tornare indietro dove oggi la grande maggioranza dei catalani non vuole andare. Non c’è progetto, non c’è sguardo sul futuro».
Come vede il futuro prossimo
di Barcellona e Milano?
«Abbiamo molte cose in comune: siamo città con una grande forza economica, non capitali di Stato ma a vocazione europea, entrambe a guida progressista, e possibili laboratori di avanguardia di politiche pubbliche. Abbiamo la formula per risolvere questioni come l’accesso alla casa, i trasporti, la transizione ecologica, ma ci mancano i soldi. Sa come abbiamo finanziato la climatizzazione verde delle scuole pubbliche, elementari e medie, di Barcellona? Con le tasse di soggiorno dei turisti. Per l’accesso alla casa, complicato dal proliferare di alloggi turistici e affitti brevi, il problema di Barcellona è lo stesso di Milano, Lisbona, Parigi... Dovremmo poterlo affrontare con lo stesso strumento legislativo e finanziario comunitario».
L’obiettivo
Voglio riposizionare la città dopo l’instabilità legata al processo indipendentista catalano