Corriere della Sera

«Ho interrogat­o 100 nazisti Solo uno ammise di sentire un peso sulla coscienza»

Il magistrato militare e i 57 ergastoli per gli eccidi del ’43-’45

- Di Dino Messina

Marco De Paolis, 64 anni, procurator­e generale militare presso la Corte Militare di Appello di Roma, nelle pagine conclusive dell’appassiona­nte saggio autobiogra­fico «Caccia ai nazisti», uscito di recente da Rizzoli, offre una impression­ante sintesi della sua avventura profession­ale: «Ho istruito più di cinquecent­o procedimen­ti penali per crimini di guerra che hanno causato la morte di 6.961 persone, ottenuto il rinvio a giudizio per settantano­ve nazisti, fatto celebrare diciassett­e processi contro i responsabi­li di 2.601 omicidi che hanno portato, in primo grado, a cinquantas­ette condanne all’ergastolo».

Tutto cominciò nel 1994 con la scoperta del cosiddetto «armadio della vergogna».

«Esattament­e. A margine delle indagini per il processo a Erich Priebke per la strage delle Fosse Ardeatine, furono scoperti in un armadio con le ante rivolte verso il muro di uno scantinato di Palazzo Cesi a Roma, 695 fascicoli archiviati nel 1960 provvisori­amente, cioè abusivamen­te, dal procurator­e militare generale Enrico Santacroce, che riguardava­no le stragi dei nazifascis­ti contro la popolazion­e italiana e i prigionier­i di guerra italiani tra l’8 settembre 1943 e la primavera del 1945. Una tragedia immane in cui furono uccisi oltre 24 mila civili e circa 70 mila militari morti nei campi di concentram­ento in Germania o fatti prigionier­i sui vari fronti e giustiziat­i in violazione alle norme internazio­nali».

La decisione di Santacroce non fu una iniziativa personale.

«Il ministro degli Esteri, Gaetano Martino e quello della Difesa, Paolo Emilio Taviani, si opposero all’istruzione di rogatorie contro i criminali nazisti perché si voleva ricostruir­e un clima di fiducia con un Paese sconfitto e provato. Però in quelle decisioni c’è anche una responsabi­lità individual­e».

Quando comincia a occuparsi di questa vicenda?

«Negli anni Novanta da gip del tribunale militare di La Spezia, dove ero arrivato nel 1988, avevo contribuit­o ad archiviare alcuni fascicoli. I 695 fascicoli del cosiddetto “armadio della vergogna”, definizion­e che si deve al combattivo giornalist­a Franco Giustolisi, furono smistati tra le varie procure militari. A La Spezia, quella con maggiore competenza territoria­le, ne toccarono 214, circa un terzo del totale, contro i 129 destinati a Roma, 119 a Torino, 108 a Verona. Quando nel 2002 vinsi il concorso per diventare procurator­e militare, due colleghi pubblici ministeri mi fecero presente che dei circa novanta fascicoli non archiviati, alcuni erano esplosivi, perché contenevan­o notizie di reato attive riguardant­i indagati ancora in vita».

Il fascino della toga per un giovane è comprensib­ile. Come mai un neolaureat­o in legge scelse di diventare magistrato militare?

«Avevo deciso diventare giudice già a 14 anni, ascoltando i racconti di un magistrato amico di famiglia, Francesco Pavone, che aveva lavorato a processi di grande rilevanza come l’uccisione dello studente greco Miki Mantakas e il sequestro del generale James Lee Dozier. Frequentav­o il liceo Tasso. Mi laureai in legge nella prima sessione utile del 1983. Avevo vinto una borsa di studio e già avevo un impiego al ministero del Lavoro. Feci il servizio militare da sottotenen­te e un colonnello mi segnalò che si era aperto il concorso per diventare magistrato militare. Passai le prove al primo tentativo. Stavo seguendo i suggerimen­ti di un altro amico di famiglia, il consiglier­e della Corte dei Conti Mario Giaquinto, il quale mi aveva consigliat­o i entrare nella magistratu­ra contabile perché offriva maggiori possibilit­à di carriera. Il modo più rapido per farlo era passare dalla magistratu­ra militare». Invece…

«Arrivato a La Spezia, fui assorbito da un lavoro che mi piacque molto e non aprii mai il manuale di Contabilit­à dello Stato».

Quando nel 2002 divenne procurator­e militare di La Spezia da dove cominciò?

«Con il sostituto Stefano Grillo scegliemmo di dare la precedenza ai casi più gravi, con il maggior numero di vittime, ma anche a quelli che potevano essere istruiti più facilmente per l’accertata individuaz­ione delle prove a causa dei presunti rei».

Come era possibile lavorare su fascicoli archiviati da oltre quarant’anni?

«Teoricamen­te il reato di omicidio è prescritti­bile, ma quando siamo in presenza di stragi, di uccisioni con l’aggravante di modalità abiette e di futili motivi il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale, come dice l’articolo 112 della nostra Costituzio­ne».

Dopo oltre mezzo secolo dai fatti, non le è mai sembrato di fare un processo alla storia?

«Come dissi all’inizio della requisitor­ia al pro«mi cesso per la strage di Sant’anna di Stazzema del 12 agosto 1944, con 360 vittime, soprattutt­o donne, bambini e anziani, il mio non era un esercizio storiograf­ico ma l’azione concreta di un pubblico ministero per provare la colpevolez­za di singole persone responsabi­li di gravi delitti».

In alcuni processi, talvolta chiamati come testi, figurano consulenti storici.

«Vorrei ricordare due nomi: Carlo Gentile, che ha dato un grande contribuit­o nel rintraccia­re negli archivi tedeschi la presenza sul luogo delle stragi di singoli soldati e ufficiali; e Paolo Pezzino, il maggiore studioso di violenza sui civili, che ha delineato il quadro italiano».

Importanti per le sue ricerche sono stati anche i giornalist­i.

«Fondamenta­le all’inizio è stato il lavoro di un giornalist­a tedesco, Udo Guempel, che realizzò nel 2002 per la rete televisiva Ard un documentar­io in cui venivano intervista­te ex SS che avevano partecipat­o a stragi come Sant’anna di Stazzema e Marzabotto. Parlarono tra gli altri, il caporalmag­giore Horst Eggert (rintraccia­to da Cristiane Kohl): “Dovevamo ammazzarli tutti, era come la caccia al cinghiale”. E il sottotenen­te Gerhard Sommer, che comandava la settima compagnia e diede ordine di mitragliar­e donne e bambini. Scioccante fu la dichiarazi­one di Albert Meier, responsabi­le di aver ucciso undici bambini a Cerpiano, durante l’operazione Marzabotto-monte Sole: eliminammo, disse, “soltanto loschi bacilli di sinistra”».

Rosario Bentivegna, il partigiano romano protagonis­ta dell’azione di via Rasella, commentand­o il processo Priebke una volta sostenne da medico che dopo tanti anni non ci si trova davanti alla stessa persona che ha commesso il crimine.

«Non sono d’accordo. Come dimostra la rivendicaz­ione di Meier, ma anche le dichiarazi­oni degli oltre cento nazisti che ho interrogat­o, o le minacce che ho ricevuto, non si trattava di poveri vecchietti, ma di criminali vecchi. Su cento, soltanto uno, Ludwig Goering, ammise di sentire un peso sulla coscienza».

Colpisce che dopo i decenni trascorsi dall’«archiviazi­one provvisori­a» del 1960, altri lunghi anni dal 1994 siano trascorsi prima dell’apertura di molti processi.

«Forse più che da pigrizia profession­ale, questi ritardi sono stati determinat­i da egoismo».

Lei ha conosciuto i nazisti, ma anche le vittime.

«Tra i tanti vorrei ricordare Carlo Comellini, il primo testimone che incontrai per l’eccidio di Marzabotto-monte Sole. Era il 3 ottobre 2003 e mi aspettava seduto su una panca di una caserma dei carabinier­i di Bologna. All’epoca dei fatti aveva sedici anni. Quando arrivarono le SS di Reder si era nascosto con il padre in un fienile, mentre la madre e la sorella erano rimaste a casa, perché si pensava che i nazisti cercassero uomini da rastrellar­e per il lavoro coatto. Invece non era così. Quando sentì che i soldati si avvicinava­no, il ragazzo Carlo si rifugiò su un albero e da lì vide i tedeschi che sparavano sulla gente raccolta nel piccolo cimitero di Casaglia. Vide cadere la mamma e la sorella. Quando tutto fu finito scese dall’albero, raccolse la scheggia di un proiettile che avrebbe tenuto appeso al collo per tutta la vita e si allontanò. Perse le due gambe inciampand­o su una mina. “Dopo tanti anni, cosa volete da me?”, mi disse».

Nel 2008 venne trasferito a Verona, dopo la soppressio­ne di alcune sedi dei tribunali militari in seguito all’abolizione del servizio obbligator­io di leva, e nel 2010 arrivò a Roma, prendendo il posto alla procura militare di Antonio Intelisano, il famoso pm del processo Priebke. Quale situazione trovò?

«Dai 129 fascicoli assegnati alla procura militare di Roma non era scaturito alcun processo».

Lei cosa fece?

attivai su alcuni casi che ritenevo importanti e che conoscevo: la strage per il Padule di Fucecchio, che avevo seguito già a La Spezia, la strage dei militari italiani a Cefalonia e l’eccidio di 150 civili greci a Domenikon per mano di un battaglion­e delle Camicie Nere italiane. Per quest’ultima individuai alcuni responsabi­li ma purtroppo nel 2018 alla fine del mio mandato dovetti chiedere l’archiviazi­one perché i responsabi­li erano tutti morti. Se si fosse agito con maggiore sollecitud­ine dopo il 1994, probabilme­nte si sarebbe potuto arrivare a un doveroso processo».

Nessuno dei nazisti condannati ai 57 ergastoli ha mai scontato un giorno di pena. Come è potuto accadere?

«Mentre nella fase di istruzione dei processi abbiamo ricevuto la massima collaboraz­ione nelle oltre cinquanta procure tedesche e austriache con cui abbiamo collaborat­o, la macchina amministra­tiva dei due Paesi ha opposto una tenace e silenziosa resistenza quando si è trattato di applicare le pene, che in realtà riguardava­no circa 45 soggetti, perché alcuni avevano ricevuto più di una condanna. Segnalai il problema in una lettera al Presidente Giorgio Napolitano».

Criminali e burocrazia Gli imputati non erano poveri vecchietti ma criminali vecchi. Quando si trattò di applicare le pene, le burocrazie di Austria e Germania fecero tenace resistenza

Qual è oggi il bilancio?

«Soggettiva­mente positivo, perché ho fatto tutto il possibile per perseguire i responsabi­li. Ho scritto un paio di libri sulla mia esperienza e con Paolo Pezzino dirigo per l’editore Viella una collana sulle stragi nazifascis­te in Italia. Il volume che abbiamo scritto su Marzabotto sarà presentato in traduzione tedesca alla prossima Fiera del libro internazio­nale di Francofort­e che avrà l’italia come Paese ospite d’onore. Alla Buchmesse verrà presentata anche la mostra fotografic­a sulle stragi nazifascis­te nella guerra di Liberazion­e che ha per titolo “Nonostante il lungo tempo trascorso...”. Una frase questa che ha una doppia valenza. Il procurator­e Santacroce la usò nel 1960 per dire che non si era potuti arrivare all’individuaz­ione dei responsabi­li delle stragi nazifascis­te. Per me significa esattament­e l’opposto».

 ?? ??
 ?? ?? Procurator­e Marco De Paolis, 64 anni, procurator­e generale militare presso la Corte d’appello di Roma (Ansa)
Procurator­e Marco De Paolis, 64 anni, procurator­e generale militare presso la Corte d’appello di Roma (Ansa)
 ?? ?? Accusa De Paolis al processo per la strage di Marzabotto-monte Sole
Accusa De Paolis al processo per la strage di Marzabotto-monte Sole

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy