Corriere della Sera

Columbia, sgombero rimandato Studenti e rettrice negoziano

L’ultimatum fissato per domani. Lo speaker Johnson: la dirigente deve dimettersi

- Viviana Mazza

È stata una lunga notte, quella tra martedì e mercoledì, alla Columbia University. In attesa della visita dello Speaker repubblica­no della Camera Mike Johnson, che ha chiesto le dimissioni della rettrice Nemat Shafik per «aver fallito nel proteggere gli studenti ebrei», alle 22 di martedì quest’ultima aveva mandato via email un ultimatum per l’accampamen­to che continua da otto giorni: a mezzanotte via tutte le tende, sennò «dovremo considerar­e opzioni alternativ­e per ripulire il Prato Occidental­e e ripristina­re la calma, in modo che gli studenti possano completare l’anno e laurearsi».

A mezzanotte altri mille studenti sono accorsi al campus: alcuni per curiosità, altri per solidariet­à, temendo un raid della polizia come il 18 aprile. C’erano anche tra 30 e 50 professori, racconta Camillo Barone, ex allievo con master alla Scuola di giornalism­o. Molti docenti si sono dati il turno, altri hanno scritto alla rettrice, arroccata a casa, lì vicino, come in una fortezza circondata da poliziotti. Tra le tende si è discusso: chi era pronto ad essere arrestato è rimasto, chi non lo era — anche per questioni di visto o di laurea imminente — è stato «spostato in una location vicina», ci racconta all’accampamen­to Philip Crane, studente che fa parte del gruppo Apartheid Divest. Ma Shafik ha spostato l’ultimatum: alle 8 di mattina e poi di altre 48 ore.

Gli studenti giurano che resteranno finché non verranno esaudite quattro richieste: la prima, realizzata la scorsa settimana, è la trasparenz­a sugli investimen­ti dell’ateneo; le altre: porre fine a investimen­ti in compagnie israeliane e alla costruzion­e di un campus a Tel Aviv; l’amnistia per gli studenti arrestati e sospesi; libertà di espression­e per i docenti. Nel frattempo Shafik dice che gli studenti accampati si sono impegnati a rimuovere «un numero significat­ivo di tende» (ieri erano una settantina), a cacciare «i non affiliati con la Columbia» (ma non verranno fatte operazioni «poliziesch­e» su chi entra ed esce, ci dice Crane) e «dare a tutti il benvenuto e proibire un linguaggio discrimina­torio e abusivo». Quest’ultimo punto è ritenuto centrale anche dagli studenti e dai professori che li difendono.

Un video girato sabato nell’accampamen­to mostra alcuni studenti che vengono accusati di essere sionisti e cacciati. Crane dice che erano agitatori che avevano iniziato a fotografar­e i presenti, violando le regole. «Ho visto poche manifestaz­ioni d’odio e nessuna violenza fisica nel campus — ci dice Jean Howard, ex direttrice del Dipartimen­to di inglese che è tra i prof che, con gilet giallo, vanno nell’accampamen­to per prevenire problemi quando sanno dell’arrivo di agitatori esterni. «Vorrei che il video non fosse stato fatto. Ma non c’è quasi alcuna intimidazi­one all’interno. Fuori invece ci sono provocator­i profession­isti che non rappresent­ano gli studenti». «In un’altra occasione — racconta Crane — abbiamo visto un cartello (che citava le brigate Al Qassam di Hamas, ndr) e l’abbiamo sequestrat­o e cacciato il responsabi­le. Non era affiliato con noi. C’è anche un’organizzaz­ione chiamata Shirion che invita persone d’aspetto mediorient­ale a infiltrare le proteste e metterle in cattiva luce...».

Ieri mattina il campus era pieno, l’accampamen­to fino alle 11 silenzioso. Poi è partito il canto: «Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera». «Ne parliamo da sei mesi — dice Howard —. Prima fu usato dagli israeliani per rivendicar­e la patria, poi dai palestines­i. Molti da entrambi i lati dicono che significa che l’altro dovrebbe essere spazzato via; altri che vuol dire che la terra dev’essere libera per tutti. Alcuni docenti suggerisco­no di modificarl­o e dire: “la democrazia sarà libera”. Non c’è accordo, ma la libertà di espression­e va consentita a meno che non ci sia un abuso diretto alle persone. Io non lo canto, per rispetto a chi ne è turbato, ma non significa che sia una minaccia alla sicurezza».

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L’«accampamen­to per la solidariet­à a Gaza» allestito dagli studenti filo palestines­i sul West Lawn della Columbia University
(Afp) Le tende L’«accampamen­to per la solidariet­à a Gaza» allestito dagli studenti filo palestines­i sul West Lawn della Columbia University

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