IL MEDIO ORIENTE CI RICHIAMA ALLA REALTÀ
Quando la guerra a Gaza sarà terminata, emergeranno pagine ancora più dolorose di quelle che conosciamo finora. Avviene così in ogni conflitto, e in tutti i lunghi combattimenti esistono anche pezzi di realtà destinati a rimanere sepolti a causa di morte di testimoni e protagonisti o silenzi di lunga durata. Ciò riguarderà entrambe le parti sebbene non possa essere omesso, e troppo spesso nel mondo lo è, che questa guerra si deve all’aggressione antisemita compiuta il 7 ottobre da Hamas e Jihad. Un’offensiva nella quale gli israeliani, sorpresi nell’alba di un giorno di festa, hanno subito il massacro feroce, deliberato e durato per ore e giorni, di propri figli. Dai vecchi ai bambini alle donne abusate, con i sequestri di ostaggi, con lo scempio di corpi umani in vita e poi offesi pure quando non lo erano più.
La reazione israeliana del 19 aprile con esplosioni su una base militare a Isfahan deriva da questo, ed è stata determinata da due fattori che ne sono premessa e corollario. Il corollario è il massiccio, benché fallito, bombardamento che nel buio notturno di domenica 14 aprile ha fatto attraversare spazi di cielo del Medio Oriente da circa 150 missili da crociera e quasi 170 droni iraniani. Nei conti delle vittime della guerra si omette sempre una somma: quante vite israeliane in più sarebbero state spezzate se i razzi lanciati da Gaza, dal Sud del Libano controllato da Hezbollah, i missili degli Houti dallo Yemen e gli ordigni iraniani non fossero stati neutralizzati in aria dal sistema di protezione Iron Dome o da alleati.
Un fatto è evidente e non dovrebbe essere oggetto di dubbio: lo Stato ebraico è sotto attacco da parte di chi vorrebbe che non esistesse più. Non è l’assalto finale, e noi europei abbiamo il dovere di contribuire a non far arrivare mai quel momento. Ma è in corso un’aggressione di livello storico, non soltanto di cronaca, che mira a togliere agli ebrei la sicurezza di avere un posto della Terra nel quale non avrebbero subito le persecuzioni patite per secoli. Una certezza che il popolo ebraico aveva acquisito con sacrificio, nel 1948, riuscendo a rendere i suoli di origine il luogo nel quale realizzare il sogno sionista di uno Stato dal forte senso di comunità, la meta raggiunta dopo aver perduto quasi sei milioni di vite nel genocidio nazista della Shoah.
La premessa di quanto sta accadendo riguarda proprio la Repubblica Islamica dell’iran. È soprattutto da Teheran che si muovono le fila di un progetto, rivendicato, finalizzato a distruggere l’«entità sionista», espressione impiegata dagli ayatollah per non riconoscere allo Stato ebraico neppure il nome, Israele. Un piano espansionista, mosso non solo da integralismo islamico e volto ad accresce l’influenza iraniana verso il Mediterraneo.
È vero che l’iran il 19 aprile rispondeva all’attacco israeliano sul suo consolato a Damasco. Quell’incursione dall’aria aveva eliminato un alto comandante dei Guardiani della Rivoluzione, il generale Mohammad Reza Zahedi incaricato di dare indicazioni a milizie che sono braccia armate dell’iran dislocate in Siria e Libano. Ma quel bombardamento mirato — contrario al rispetto internazionale dovuto a una sede diplomatica, eseguito su un ufficio non precisamente adibito a ricerca di pace — ha la sua origine nella risoluta, sferzante autodifesa che Israele da anni contrappone a costanti campagne offensive guidate a distanza dall’iran.
Che a una nazione intenzionata a cancellare lo Stato ebraico dalle mappe geografiche manchi poco dal dotarsi di bomba atomica non può lasciare inerte Israele. Il governo di Bibi Netanyahu è privo di una strategia di lungo periodo, ha torto nell’aumentare gli insediamenti in Cisgiordania, non ha adottato su Gaza ogni misura a tutela dei civili mentre i suoi militari devono combattere un’organizzazione terroristica che tra la gente comune si nasconde. Tuttavia il nodo della possibile potenza nucleare iraniana a lungo aggirato dalla comunità internazionale si poneva e si pone.
Il Medio Oriente ci richiama alla realtà, a una brutta realtà. Ce la consegna di fronte sostituendola a placide illusioni nelle quali in tanti avevano creduto. Per capire lo stato d’animo di Israele è utile ricordare che cosa disse sugli ebrei a Paolo VI, nel 1973, Golda Meir, primo ministro israeliano. A rammentarlo è la scorrevole e circostanziata biografia «Golda» scritta da Elisabetta Fiorito, edizioni Giuntina. «Quando eravamo misericordiosi, quando non avevamo una patria, quando eravamo deboli, siamo stati portati nelle camere a gas», affermò il primo ministro. La stessa donna che aveva fatto presente l’indispensabilità della difesa nel 1956, altro anno di guerra: «Restare vivi significa molto di più che avere la pietà internazionale quando siamo morti».
La nostra sicurezza, le radici giudaicocristiane dell’europa, gli equilibri del mondo e una pace futura — non gli estremismi di Netanyahu e della sua coalizione — richiedono che a Israele il nostro sostegno non manchi. Negarlo potrebbe costare molto. All’intero Mediterraneo.
Il ruolo dell’iran
È soprattutto Teheran che si muove e rivendica il progetto finalizzato a distruggere l’«entità sionista»