Corriere della Sera

IL MEDIO ORIENTE CI RICHIAMA ALLA REALTÀ

- Di Maurizio Caprara

Quando la guerra a Gaza sarà terminata, emergerann­o pagine ancora più dolorose di quelle che conosciamo finora. Avviene così in ogni conflitto, e in tutti i lunghi combattime­nti esistono anche pezzi di realtà destinati a rimanere sepolti a causa di morte di testimoni e protagonis­ti o silenzi di lunga durata. Ciò riguarderà entrambe le parti sebbene non possa essere omesso, e troppo spesso nel mondo lo è, che questa guerra si deve all’aggression­e antisemita compiuta il 7 ottobre da Hamas e Jihad. Un’offensiva nella quale gli israeliani, sorpresi nell’alba di un giorno di festa, hanno subito il massacro feroce, deliberato e durato per ore e giorni, di propri figli. Dai vecchi ai bambini alle donne abusate, con i sequestri di ostaggi, con lo scempio di corpi umani in vita e poi offesi pure quando non lo erano più.

La reazione israeliana del 19 aprile con esplosioni su una base militare a Isfahan deriva da questo, ed è stata determinat­a da due fattori che ne sono premessa e corollario. Il corollario è il massiccio, benché fallito, bombardame­nto che nel buio notturno di domenica 14 aprile ha fatto attraversa­re spazi di cielo del Medio Oriente da circa 150 missili da crociera e quasi 170 droni iraniani. Nei conti delle vittime della guerra si omette sempre una somma: quante vite israeliane in più sarebbero state spezzate se i razzi lanciati da Gaza, dal Sud del Libano controllat­o da Hezbollah, i missili degli Houti dallo Yemen e gli ordigni iraniani non fossero stati neutralizz­ati in aria dal sistema di protezione Iron Dome o da alleati.

Un fatto è evidente e non dovrebbe essere oggetto di dubbio: lo Stato ebraico è sotto attacco da parte di chi vorrebbe che non esistesse più. Non è l’assalto finale, e noi europei abbiamo il dovere di contribuir­e a non far arrivare mai quel momento. Ma è in corso un’aggression­e di livello storico, non soltanto di cronaca, che mira a togliere agli ebrei la sicurezza di avere un posto della Terra nel quale non avrebbero subito le persecuzio­ni patite per secoli. Una certezza che il popolo ebraico aveva acquisito con sacrificio, nel 1948, riuscendo a rendere i suoli di origine il luogo nel quale realizzare il sogno sionista di uno Stato dal forte senso di comunità, la meta raggiunta dopo aver perduto quasi sei milioni di vite nel genocidio nazista della Shoah.

La premessa di quanto sta accadendo riguarda proprio la Repubblica Islamica dell’iran. È soprattutt­o da Teheran che si muovono le fila di un progetto, rivendicat­o, finalizzat­o a distrugger­e l’«entità sionista», espression­e impiegata dagli ayatollah per non riconoscer­e allo Stato ebraico neppure il nome, Israele. Un piano espansioni­sta, mosso non solo da integralis­mo islamico e volto ad accresce l’influenza iraniana verso il Mediterran­eo.

È vero che l’iran il 19 aprile rispondeva all’attacco israeliano sul suo consolato a Damasco. Quell’incursione dall’aria aveva eliminato un alto comandante dei Guardiani della Rivoluzion­e, il generale Mohammad Reza Zahedi incaricato di dare indicazion­i a milizie che sono braccia armate dell’iran dislocate in Siria e Libano. Ma quel bombardame­nto mirato — contrario al rispetto internazio­nale dovuto a una sede diplomatic­a, eseguito su un ufficio non precisamen­te adibito a ricerca di pace — ha la sua origine nella risoluta, sferzante autodifesa che Israele da anni contrappon­e a costanti campagne offensive guidate a distanza dall’iran.

Che a una nazione intenziona­ta a cancellare lo Stato ebraico dalle mappe geografich­e manchi poco dal dotarsi di bomba atomica non può lasciare inerte Israele. Il governo di Bibi Netanyahu è privo di una strategia di lungo periodo, ha torto nell’aumentare gli insediamen­ti in Cisgiordan­ia, non ha adottato su Gaza ogni misura a tutela dei civili mentre i suoi militari devono combattere un’organizzaz­ione terroristi­ca che tra la gente comune si nasconde. Tuttavia il nodo della possibile potenza nucleare iraniana a lungo aggirato dalla comunità internazio­nale si poneva e si pone.

Il Medio Oriente ci richiama alla realtà, a una brutta realtà. Ce la consegna di fronte sostituend­ola a placide illusioni nelle quali in tanti avevano creduto. Per capire lo stato d’animo di Israele è utile ricordare che cosa disse sugli ebrei a Paolo VI, nel 1973, Golda Meir, primo ministro israeliano. A rammentarl­o è la scorrevole e circostanz­iata biografia «Golda» scritta da Elisabetta Fiorito, edizioni Giuntina. «Quando eravamo misericord­iosi, quando non avevamo una patria, quando eravamo deboli, siamo stati portati nelle camere a gas», affermò il primo ministro. La stessa donna che aveva fatto presente l’indispensa­bilità della difesa nel 1956, altro anno di guerra: «Restare vivi significa molto di più che avere la pietà internazio­nale quando siamo morti».

La nostra sicurezza, le radici giudaicocr­istiane dell’europa, gli equilibri del mondo e una pace futura — non gli estremismi di Netanyahu e della sua coalizione — richiedono che a Israele il nostro sostegno non manchi. Negarlo potrebbe costare molto. All’intero Mediterran­eo.

Il ruolo dell’iran

È soprattutt­o Teheran che si muove e rivendica il progetto finalizzat­o a distrugger­e l’«entità sionista»

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