In difesa del populismo
Esce il 30 aprile il «Dizionario politico minimo» (Fazi) del filologo. Qui una sintesi di una delle voci le classi sociali si sono frantumate, ma resta necessario tutelare i poveri
Non ho grande inclinazione a adoperare la parola «populismo», nel senso con cui viene utilizzata ora. Altro è il populismo come fenomeno storico in Russia e in America nell’ottocento. Se rimuoviamo questo, perché non c’entra niente con l’attuale dibattito, dobbiamo tenerci le definizioni confuse che vengono evocate o, meglio, fatte intravedere.
Ribadisco, fatte intravedere, perché nessuno dei politici e teorici che adoperano il termine, ovviamente con disprezzo, ha mai spiegato che cos’è il populismo. Posso capire che è comodo mettere in cattiva luce chi si incarica di interessi popolari (e dà fastidio) dandogli del populista. Ma è una trovata come un’altra che, anziché contrapporre una diversa soluzione ai problemi, si limita a spregiare chi li solleva. «Populista» ed è finita, marchiato a fuoco come gli schiavi nell’antichità. Un modo di fare che farebbe ridere se non fosse così diffuso e praticato quasi universalmente.
C’è poi un altro aspetto della questione.
Nonostante la previsione sbagliata di Marx secondo cui le classi si sarebbero polarizzate, è avvenuto l’esatto contrario. Quelle antagoniste rispetto ai detentori della ricchezza si sono frantumate, suddivise, articolate. Ma anche tra i detentori della ricchezza l’enorme crescita del capitale finanziario, in termini di forza e peso, ha dimostrato che pure il versante capitalistico è frantumato. Per cui chi ha una fabbrica di dieci dipendenti è una vittima di chi può elargire o non elargire il credito, alzare i tassi e così via. La situazione si è quindi enormemente complicata. Le classi anziché polarizzarsi si sono moltiplicate da ambo le parti. Condizione che, tra chi se la passa male, crea e alimenta la guerra tra poveri e quindi, a maggior ragione, l’impotenza riformatrice.
Quando qualcuno cerca di raccogliere le istanze provenienti dalle varie parti, e questo soggetto dovrebbe perlopiù essere il sindacato — ormai i partiti hanno abdicato a questa funzione — viene subito bollato come populista.
Ma il fatto che si usi la parola «popolo» e non «classe operaia» non è un capriccio o un arretramento mentale. Allo stato attuale l’unico termine che può effettivamente mettere insieme questi segmenti di persone è proprio «popolo».
Propugnare nei limiti del possibile l’interesse di questo «popolo» lo vogliamo chiamare «populismo»? Chiamiamolo populismo. Diventa una nozione positiva. Non sarà facile far passare questo concetto, perché gli onnipotenti mezzi di comunicazione piccoli, medi e grandi ne hanno ormai imposto, nel lessico politico corrente, un’accezione negativa. Gli sforzi in senso contrario rischiano di risultare vani. (...)
L’assenza di partiti di ispirazione socialista ha determinato il rapidissimo sviluppo di formazioni che dicevano qualche cosa che alla gente finalmente pareva non solo comprensibile, ma anche apprezzabile.
La genesi e l’identità di questi movimenti, però, va differenziata caso per caso.
In Italia il M5S ha sostenuto alcune istanze importanti. Sono stati i primi a parlare di salario minimo garantito. Hanno scelto una formula forse infelice, «reddito di cittadinanza», che ha fatto pensare che si volesse far vivere di rendita persone che non fanno nulla. Ma salario minimo garantito vuol dire un’altra cosa. Mentre il capitale, specie finanziario, fa profitti enormi, noi diamo qualcosa a chi non ha assolutamente risorse. È una forma di redistribuzione nell’epoca in cui il grande sviluppo tecnico (insieme a tante altre cause) espelle dal mondo produttivo migliaia di persone. E queste persone o si buttano a mare oppure devono essere garantite nella loro sopravvivenza minima. In più, provvedimenti di questo tipo hanno l’ulteriore effetto di spingere verso l’alto la contrattazione salariale. Tutto sommato, però, questi bravi ragazzi del M5S hanno fatto anche errori madornali. Ad esempio l’idiozia di ridurre il numero dei parlamentari per risparmiare non so quali quattrini. Uno straordinario regalo alla destra che, grazie alla legge elettorale dissennata, ha potuto avere una maggioranza forte pur non essendo maggioranza reale nel Paese. Tanto per fare un esempio. (...)
Il punto vero è che l’improvvisata capacità di coinvolgere, se non corrisponde a una organizzazione ben strutturata con programmi precisi, chiari, da difendere nel tempo, anche attraverso una pratica culturale di informazione capillare, va inevitabilmente incontro al fallimento. Credere che questi movimenti possano essere grimaldelli per il futuro mi sembra molto ottimistico. Nel momento in cui i partiti storici, a suo tempo maggiormente dotati di cultura e capacità di programmazione, si sono suicidati — o hanno geneticamente modificato i loro quadri dirigenti — non era possibile un miracolo grazie al quale una determinata visione del mondo passava da una formazione all’altra come fosse lo Spirito Santo.