Chi urla conosce la storia di Jacchia, partigiano ebreo?
Che ne sanno, i giovani inveleniti che ieri in nome della Palestina e di Hamas insultavano a Milano gli ebrei alla celebrazione del 25 Aprile, di Mario Jacchia? Zero, probabilmente. Eppure almeno quel nome dovrebbe spingere alla cautela chi sbraita associando oggi i partigiani israeliti antifascisti agli eccessi a Gaza e Netanyahu. L’avvocato bolognese Mario Jacchia, infatti, cugino di Pietro morto combattendo in Spagna con le Brigate Garibaldi contro i nazionalisti golpisti di Francisco Franco, non fu solo uno del migliaio di partigiani ebrei coinvolti nella Resistenza (una quota altissima: come se un milione di italiani fosse salita a combattere in armi sui monti delle Alpi e degli Appennini) e neppure solo uno dei primi a organizzare dei gruppi armati contro i nazifascisti in Emilia. Fu un eroe. Che si meritò la riconoscenza di tutti gli italiani sacrificando la propria vita per quella dei compagni. Alpino decorato con quattro medaglie nella I Guerra mondiale, convinto antifascista dopo il delitto Matteotti, presente a Roma dopo l’8 settembre nei primi scontri con l’esercito tedesco, primo rappresentante del Partito d’azione all’interno del Cln emiliano, comandante partigiano di tutta l’area nella primavera ’44 col nome di battaglia «Rossini», il 3 agosto 1944, come ricorderà Ferruccio Parri, si trovava a Parma con altri tre partigiani quando la casa fu circondata dalle brigate nere. In fuga sui tetti, Mario ricordò «che nella stanza erano rimaste carte importanti e tornò indietro per distruggerle». Una scelta eroica e fatale. Catturato, fu torturato per giorni. Non parlò.
L’ultimo a vederlo vivo fu, rinchiuso nello stesso carcere, Giorgio Amendola: «Poi vidi trascinare giù per le scale una persona che si reggeva a stento in piedi, la camicia macchiata di sangue, un occhio pesto e la faccia tumefatta. Dall’aspetto riconobbi l’avvocato Jacchia...» Nessuno l’avrebbe mai rivisto. Il corpo fu fatto sparire. Anni dopo la famiglia ricevette una Medaglia d’oro alla memoria. E ieri, a Milano, «Rossini» avrebbe avuto tutto il diritto di esserne orgoglioso. Alla faccia di chi sbraitava.