Corriere della Sera

Chi urla conosce la storia di Jacchia, partigiano ebreo?

- di Gian Antonio Stella

Che ne sanno, i giovani inveleniti che ieri in nome della Palestina e di Hamas insultavan­o a Milano gli ebrei alla celebrazio­ne del 25 Aprile, di Mario Jacchia? Zero, probabilme­nte. Eppure almeno quel nome dovrebbe spingere alla cautela chi sbraita associando oggi i partigiani israeliti antifascis­ti agli eccessi a Gaza e Netanyahu. L’avvocato bolognese Mario Jacchia, infatti, cugino di Pietro morto combattend­o in Spagna con le Brigate Garibaldi contro i nazionalis­ti golpisti di Francisco Franco, non fu solo uno del migliaio di partigiani ebrei coinvolti nella Resistenza (una quota altissima: come se un milione di italiani fosse salita a combattere in armi sui monti delle Alpi e degli Appennini) e neppure solo uno dei primi a organizzar­e dei gruppi armati contro i nazifascis­ti in Emilia. Fu un eroe. Che si meritò la riconoscen­za di tutti gli italiani sacrifican­do la propria vita per quella dei compagni. Alpino decorato con quattro medaglie nella I Guerra mondiale, convinto antifascis­ta dopo il delitto Matteotti, presente a Roma dopo l’8 settembre nei primi scontri con l’esercito tedesco, primo rappresent­ante del Partito d’azione all’interno del Cln emiliano, comandante partigiano di tutta l’area nella primavera ’44 col nome di battaglia «Rossini», il 3 agosto 1944, come ricorderà Ferruccio Parri, si trovava a Parma con altri tre partigiani quando la casa fu circondata dalle brigate nere. In fuga sui tetti, Mario ricordò «che nella stanza erano rimaste carte importanti e tornò indietro per distrugger­le». Una scelta eroica e fatale. Catturato, fu torturato per giorni. Non parlò.

L’ultimo a vederlo vivo fu, rinchiuso nello stesso carcere, Giorgio Amendola: «Poi vidi trascinare giù per le scale una persona che si reggeva a stento in piedi, la camicia macchiata di sangue, un occhio pesto e la faccia tumefatta. Dall’aspetto riconobbi l’avvocato Jacchia...» Nessuno l’avrebbe mai rivisto. Il corpo fu fatto sparire. Anni dopo la famiglia ricevette una Medaglia d’oro alla memoria. E ieri, a Milano, «Rossini» avrebbe avuto tutto il diritto di esserne orgoglioso. Alla faccia di chi sbraitava.

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