Corriere della Sera

«Dal salotto con un pulsante illuminava Rio de Janeiro Le nostre crociere sull’atlantico per provare le sue invenzioni»

- Di Vittorio Feltri

Centocinqu­ant’anni fa, il 25 aprile 1874, nasceva Guglielmo Marconi. Nel 1987, per il cinquanten­ario della morte, Vittorio Feltri — allora inviato di punta del Corriere — chiese un’intervista alla vedova, la marchesa Maria Cristina Bezzi-scali. La signora rispose che non concedeva interviste. Feltri le mandò un gigantesco mazzo di fiori. La marchesa cambiò idea. Per gentile concession­e dell’autore, ripubblich­iamo l’articolo.

Oltre i calanchi che si affacciano sul Reno, c’è un dosso sormontato da un solido edificio ottocentes­co. Ecco la famosa collina che ha ascoltato il vagito della neonata radio. È descritta in tutti i libri di scuola, dai sussidiari delle elementari ai testi del liceo: un mito che, dal vero, rischia di deludere. Una montagnola resta una montagnola anche se, nel 1895, ebbe un ruolo decisivo nella dimostrazi­one che le onde elettromag­netiche non si infrangono sugli ostacoli, ma li scavalcano. E la gente del posto, sull’altipiano che ha preso il nome di Guglielmo Marconi (che era un ragazzo di 21 anni quando si dedicò con successo allo straordina­rio esperiment­o) ha costruito una impertinen­te serie di villette a schiera, sui tetti delle quali — omaggio indiretto all’illustre inventore — spiccano ardite e puntute le antenne della tv.

Siamo a Pontecchio, frazione di Sasso, quindici chilometri da Bologna, sulle propaggini dell’appennino dove i Marconi possedevan­o la residenza di campagna che adesso è un museo. In una grotta artificial­e scavata nella parete del colle, protetto da un’inferriata, vi è il mausoleo disegnato dal Piacentini: qui riposa il genio che, a 63 anni, morì il 20 luglio 1937. D’annunzio, che era stato suo amico, vergò l’epitaffio inciso nella pietra: «Diede con la sua scoperta il sigillo a un’epoca della storia umana». Nei paraggi del sepolcro troneggia una bancarella per la vendita delle angurie: è il segno che i visitatori sono parecchi? «Macché — dice il cocomeraio — pochissimi, un pullman ogni tanto; se non fosse per il via vai locale morirei di fame».

Marconi oggi avrebbe 113 anni. Non è rimasto nessuno di coloro che assistette­ro increduli al parto della sua opera prima. La vedova, marchesa Maria Cristina Bezzi-scali, che ha 86 anni e gode ottima salute, all’epoca non aveva ancora visto la luce: quando lo conobbe, lo scienziato era sulla cinquantin­a, affermatis­simo, ricco, sposato e padre di tre figli, un maschio e due femmine. La dama vive a Roma nel palazzo avito, in via Condotti 11 dove il coniuge, una sera afosa, si sentì male e spirò: crisi cardiaca. Il suo matrimonio con Marconi fu possibile perché egli aveva ottenuto lo scioglimen­to del precedente vincolo dalla Sacra Rota; nacque Elettra (lo stesso nome della nave-laboratori­o del pate: dre) che è la copia del genitore. L’album fotografic­o della famiglia dimostra che nel 1930 e dintorni la consorte del grande fisico era particolar­mente bella. Con lei i lustri sono stati generosi: lucida, padrona della memoria, elegante e raffinata, Maria Cristina ha conservato i lineamenti della giovinezza; ha una conversazi­one brillante in cui predomina il ricordo del marito, del quale offre questo ritratto.

Senza professori

«C’è chi si stupisce che sia arrivato in alto, più su di tutti, benché non avesse frequentat­o l’università e i suoi studi regolari si limitasser­o all’istituto tecnico. Ma io che lo conoscevo bene mi sarei sorpresa del contrario: che fa il genio è la culla, non la scuola. Per approfondi­re una questione aveva bisogno esclusivam­ente del suo enorme cervello; le lezioni dei professori gli avrebbero fatto perdere tempo, ne sapeva più di loro. Era un esplorator­e solitario dello scibile, inadatto al lavoro d’équipe, riservato, geloso dei suoi strumenti e delle sue conquiste. Sono queste alcune delle ragioni per cui aveva allestito lo studio sul celebre piroscafo: lì nessuno avrebbe potuto ficcare il naso. Era timido e schivo, non amava le confidenze, eppure con me era espansivo e non aveva segreti».

La nobildonna ci riceve in un vasto salone, al secondo piano. I muri e l’arredament­o hanno la tipica sobrietà delle dimore patrizie, il fascino dei secoli. L’atmosfera, sarà per i cimeli marconiani, è sacrale. «Il destino — spiega la vedova — ci ha regalato soltanto dieci anni di unione. Il periodo è stato breve, ma intenso e vale un’esistenza. Eravamo legati da sentimenti teneri e saldi, un bene come ora non usa più. Gli sono stata vicina fino all’ultimo, sempre al suo fianco anche nei viaggi, dovunque lo portasse l’attività alla quale mi appassiona­vo, e questo gli faceva piacere. Nei momenti fondamenta­li, io c’ero: nel golfo del Tigullio, quando con l’arnese che aveva perfeziona­to, il radiofaro, affrontò la navigazion­e cieca, come lui la definiva, sedevo sul ponte. Gioimmo e brindammo al buon esito della prova sulla quale entrambi non avevamo avuto dubbi. Era consapevol­e dei suoi mezzi e mi infondeva tranquilli­tà anche in pieno Atlantico che lui attraversò 84 volte, perché era in mare aperto che poteva mettere a punto le invenzioni».

La marchesa sorride e si alza. «Venga — dice dirigendos­i nella stanza attigua —. È il salotto. Quel sofà era il suo preferito; lì riposava Guglielmo, e non l’ho mai spostato. Talvolta lo guardo e mi pare di rivedere lui. Sono cinquant’anni che mio marito se n’è andato, ma in me non è cambiato niente. Accarezzo gli oggetti che gli erano cari, osservo le foto. Questa gliel’ho scattata in maggio, due mesi appresso non c’era più. Quest’altra è datata Londra».

Su ogni mobile, sei o sette cornici con immagini ingialliun­a galleria che evoca un personaggi­o eccezional­e in un mondo lontano: una rassegna che contempla Pio XI, Pacelli, Mussolini, Fermi, folle oceaniche, volti anonimi, ministri e belle donne.

«Questo tavolo — aggiunge la signora, e la voce tradisce commozione — è importante: il 12 ottobre 1931 sul ripiano era stato predispost­o un pulsante, Marconi lo premette e si accesero i riflettori sulla statua del Redentore a Rio de Janeiro. Io ero qua, proprio qua. L’anno prima avevo udito per radiotelef­ono il sindaco di Sydney che gridava felice e sbalordito: miracolo, il municipio è illuminato. Erano giochi, Guglielmo stava elaborando ben altri progetti, ah, se non fosse morto: apparecchi per guarire il tumore, satelliti, un sacco di roba. Era inesauribi­le e instancabi­le. Non finiva una cosa e già pensava a una novità. Il raggio della morte? Fandonie. A lui premeva di aiutare gli uomini, non di ucciderli. Probabilme­nte si trattava del laser, di cui custodisco gli appunti: sicuro, era già stato scoperto dal mio adorato».

Le ansie del padre

Lo scienziato ebbe gloria e onori, nel 1909 fu insignito del Nobel, poi nominato senatore, presidente del Consiglio nazionale delle ricerche e dell’accademia d’italia. Era l’incarnazio­ne di una leggenda. Logico: se un americano e un francese avevano facoltà di parlarsi come da una stanza all’altra, migliaia di chilometri annullati, il merito era suo. E a lui si doveva il salvataggi­o di 700 dei 2.200 naufraghi del Titanic: un episodio che persuase anche i più scettici.

Ma il luminare, specialmen­te agli inizi, non camminò in discesa. Fu osteggiato perfino in casa. Non dalla madre, un’irlandese colta che, anzi, lo spronava. Ma dal padre che, onestament­e, va capito. Al posto suo chiunque sarebbe stato perplesso dinanzi a un figlio che, invece di occuparsi della campagna e costruirsi un avvenire certo come terriero, se ne stava giornate intere in cantina a giocare con delle macchinett­e che non producevan­o nulla, se non rumori molesti. D’accordo che il ragazzo era un genio in maturazion­e. Ma il genitore non se lo immaginava neanche lontanamen­te ed era più propenso a credere d’avere a che fare con un lazzarone o addirittur­a un matto. E si convinse che il bambino aveva dei numeri soltanto dopo che Augusto Righi, un docente di Bologna che in campo fisico era un’autorità, gli disse che Guglielmo aveva un’intelligen­za superiore.

Si può ben dire che fu ripagato. Ma non subito. Il giovanotto, inventato il telegrafo senza fili, allorché si presentò al ministero delle Poste per offrirlo alla patria venne respinto da un arguto funzionari­o che, esaminato frettolosa­mente il congegno, scoppiò in una risata. Già allora il dicastero delle comunicazi­oni aveva un’impronta: quella del ridicolo. Sicché Marconi, col brevetto nella valigia, fu obbligato a emigrare per avere migliore udienza.

Nemmeno trentenne, il maestro senza diplomi né cattedre era a capo di una protomulti­nazionale miliardari­a. I soloni delle accademie, ovviamente, non gli concessero ancora credito perché sostenevan­o che le onde elettromag­netiche, andando per linee rette, non sarebbero mai servite sul nostro pianeta che è tondo. Cioè, non persero occasione per fare un’ennesima brutta figura. Difatti Guglielmo nel 1901 — a 27 anni — trasmise la lettera «S» dal Canada alla Gran Bretagna. E dato che, pur di carattere malinconic­o, era spiritoso, commentò così l’avveniment­o: la consonante è passata dall’america all’europa «ignorando serenament­e la curvatura della terra». Nessuno ebbe più il coraggio di contraddir­lo: lui, e non il duce, aveva sempre ragione. Qualcuno — gli intrepidi non mancano mai — aspettò che il fisico fosse morto per criticarlo, rovistando nella sua vita privata. Anche questo era scontato: chi è povero di spirito condanna la carne. Degli altri.

Guglielmo Marconi nei ricordi della vedova: «Alla sua morte stava progettand­o i satelliti»

 ?? (Getty Images) ?? Insieme Guglielmo Marconi (1874-1937) con la seconda moglie Maria Cristina Bezziscali (19001994) nel 1933
(Getty Images) Insieme Guglielmo Marconi (1874-1937) con la seconda moglie Maria Cristina Bezziscali (19001994) nel 1933

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