La vocazione alla libertà di una monaca per forza
Con «Il velo strappato» (Harpercollins) Brunella Schisa racconta la vicenda reale di Enrichetta Caracciolo: un caso di due secoli fa
Capita che ci si interroghi, vedendo il grandissimo numero di conventi, spesso magnifici monumenti situati in luoghi meravigliosi, tutti o quasi tutti desolatamente vuoti, o, se non proprio vuoti, abitati soltanto — si parla di monasteri femminili — da un paio di suore decrepite, su che cosa fare di tanti monasteri. Forse anche più interessante sarebbe tuttavia chiedersi perché in passato fossero così pieni da dover essere per forza in gran numero, sparsi in tutto il Paese.
La risposta è semplice e chiarisce entrambi i dubbi: ieri questi cosiddetti luoghi santi erano stipati di fanciulle che non avevano trovato marito, che difficilmente ne avrebbero trovato uno per mancanza di adeguata dote, ma anche, per esempio, nel caso fossero fornite di carattere ribelle. E quasi tutte, eccezioni a parte, non avevano l’ombra di una vocazione. Qualcuna magari, stordita dalle lusinghe e dai festeggiamenti riservati a chi prendeva il velo, lì per lì credeva nella chiamata — poteva trattarsi anche di ragazzine di quattordici o quindici anni — salvo poi sentirsi in trappola rendendosi conto che la chiamata non c’era proprio stata. Mentre oggi i conventi sono vuoti perché non c’è più nessuna che si richiuda senza avere sicura vocazione.
Brunella Schisa, giornalista e scrittrice, autrice di vari romanzi storici, ha dedicato questo suo recentissimo Il velo strappato (pubblicato da Harpercollins) alla monaca partenopea Enrichetta Caracciolo, vissuta due secoli fa, al tempo dei monasteri pieni (il sottotitolo del volume è infatti Tormenti di una monaca napoletana).
La sventurata fu spedita nel convento di clausura di San Gregorio Armeno a diciott’anni per un insieme di motivi che niente avevano a che fare con la religione: pochi soldi per una dote che permettesse un matrimonio degno di una principessa Caracciolo, una madre vedova che a sua volta cercava marito, più un carattere insubordinato, pericolosamente facile agli innamoramenti.
Per costruire il suo romanzo storico, l’autrice si è, per così dire, «appoggiata» all’esistente letteratura su Enrichetta, in particolare a un testo di memorie autobiografiche della monaca stessa, decisa fin dal primo giorno della sua prigionia a lasciare il convento. La poveretta ci metterà vent’anni perché ebbe tutti contro, le varie, successive badesse, i confessori, le «colleghe» suore, l’arcivescovo e perfino il
Papa, al quale la Caracciolo rivolse varie suppliche.
Fu davvero un’aspra, dura prigionia e coloro che ne tenevano le chiavi — rifiutando di dargliele — come in coro sostenevano che fosse per il suo bene, per proteggerla dal mondo e dalle sue insidie. Ed Enrichetta quasi ne morì.
Il bel romanzo di Brunella Schisa rende giustizia alla disgraziata monaca per forza, risarcimento — due secoli dopo — per la vera e propria persecuzione riservatale dalle autorità ecclesiastiche di tutti i ranghi, nessuna delle quali ebbe mai pietà di lei.