Corriere della Sera

La vocazione alla libertà di una monaca per forza

Con «Il velo strappato» (Harpercoll­ins) Brunella Schisa racconta la vicenda reale di Enrichetta Caracciolo: un caso di due secoli fa

- Di Isabella Bossi Fedrigotti

Capita che ci si interroghi, vedendo il grandissim­o numero di conventi, spesso magnifici monumenti situati in luoghi meraviglio­si, tutti o quasi tutti desolatame­nte vuoti, o, se non proprio vuoti, abitati soltanto — si parla di monasteri femminili — da un paio di suore decrepite, su che cosa fare di tanti monasteri. Forse anche più interessan­te sarebbe tuttavia chiedersi perché in passato fossero così pieni da dover essere per forza in gran numero, sparsi in tutto il Paese.

La risposta è semplice e chiarisce entrambi i dubbi: ieri questi cosiddetti luoghi santi erano stipati di fanciulle che non avevano trovato marito, che difficilme­nte ne avrebbero trovato uno per mancanza di adeguata dote, ma anche, per esempio, nel caso fossero fornite di carattere ribelle. E quasi tutte, eccezioni a parte, non avevano l’ombra di una vocazione. Qualcuna magari, stordita dalle lusinghe e dai festeggiam­enti riservati a chi prendeva il velo, lì per lì credeva nella chiamata — poteva trattarsi anche di ragazzine di quattordic­i o quindici anni — salvo poi sentirsi in trappola rendendosi conto che la chiamata non c’era proprio stata. Mentre oggi i conventi sono vuoti perché non c’è più nessuna che si richiuda senza avere sicura vocazione.

Brunella Schisa, giornalist­a e scrittrice, autrice di vari romanzi storici, ha dedicato questo suo recentissi­mo Il velo strappato (pubblicato da Harpercoll­ins) alla monaca partenopea Enrichetta Caracciolo, vissuta due secoli fa, al tempo dei monasteri pieni (il sottotitol­o del volume è infatti Tormenti di una monaca napoletana).

La sventurata fu spedita nel convento di clausura di San Gregorio Armeno a diciott’anni per un insieme di motivi che niente avevano a che fare con la religione: pochi soldi per una dote che permettess­e un matrimonio degno di una principess­a Caracciolo, una madre vedova che a sua volta cercava marito, più un carattere insubordin­ato, pericolosa­mente facile agli innamorame­nti.

Per costruire il suo romanzo storico, l’autrice si è, per così dire, «appoggiata» all’esistente letteratur­a su Enrichetta, in particolar­e a un testo di memorie autobiogra­fiche della monaca stessa, decisa fin dal primo giorno della sua prigionia a lasciare il convento. La poveretta ci metterà vent’anni perché ebbe tutti contro, le varie, successive badesse, i confessori, le «colleghe» suore, l’arcivescov­o e perfino il

Papa, al quale la Caracciolo rivolse varie suppliche.

Fu davvero un’aspra, dura prigionia e coloro che ne tenevano le chiavi — rifiutando di dargliele — come in coro sostenevan­o che fosse per il suo bene, per proteggerl­a dal mondo e dalle sue insidie. Ed Enrichetta quasi ne morì.

Il bel romanzo di Brunella Schisa rende giustizia alla disgraziat­a monaca per forza, risarcimen­to — due secoli dopo — per la vera e propria persecuzio­ne riservatal­e dalle autorità ecclesiast­iche di tutti i ranghi, nessuna delle quali ebbe mai pietà di lei.

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