Chailly: il testo della «Nona» ha un valore di fratellanza
Il direttore sul podio della Scala per i 200 anni della sinfonia di Beethoven
MILANO Duecento anni fa, a Vienna, la prima esecuzione della «Nona sinfonia» di Beethoven. In Italia fu portata dalla borghesia milanese del Quartetto solo il 18 aprile 1878: perché?
«Fu così, con grave ritardo — esordisce il direttore Riccardo Chailly —. Nel 1825 era stata eseguita a Londra, poi a Berlino e Parigi. Le prime integrali di Beethoven avvennero a Vienna e Lipsia con Felix Mendelssohn, che fu criticato da Schumann perché si avvicinava con troppa rapidità a Beethoven. Oggi la sua musica è anche patrimonio italiano, ma allora era una partitura difficile da eseguire e di complessità sinfonica».
La «Nona» è un patrimonio europeo e questa sera Art’è la trasmette da quattro teatri, ciascuno un movimento: per il terzo è stata scelta la Scala.
«Inizia Andris Nelsons con il Gewandhaus; poi Klaus Mäkelä a Parigi, noi alla Scala e, infine, Petr Popelka con i Wiener Symphoniker. È un segnale interessante per la Scala e, in generale, per il valore di fratellanza del testo beethoveniano. Quando fu direttore del Gewandhaus, Arthur Nikisch introdusse la tradizione di eseguire questa sinfonia a ogni inizio anno, idea che si è allargata in tutto il mondo e io la portai a Milano quando dirigevo l’orchestra Verdi».
Qual è stato il rapporto tra un teatro operistico come la Scala e Beethoven?
«Tutte le presenze responsabili della direzione musicale della Scala hanno avuto in Beethoven un percorso obbligato: quattro anni fa io ho concluso l’integrale. Questo capolavoro ha segnato regolarmente il procedere della programmazione scaligera».
Con la Gewandhausorchester lei ha realizzato una incisione delle sinfonie di Beethoven più apprezzata, con i metronomi originali.
«Fu una esperienza folgorante, in empatia con l’orchestra, che era in confidenza con il testo visto i miei predecessori. È stato un passo epocale per la mia vita al quale ho aggiunto l’esperienza dell’integrale con la Filarmonica».
Perché la «Nona» dà l’idea della perfezione in musica?
«Perché una vita non basta a comprenderla, ma non parlerei di perfezione. Beethoven era un genio imperfetto, che creava in virtù della complessità delle strutture di allora, era un avanguardista, come mostra anche la tessitura del coro, antitetica allo stile di quegli anni. Nel primo movimento ci trasmette la drammaticità della vita. Il secondo è uno scherzo, un gioco di cambiamento psicologici antitetico al primo. Il terzo è un atto di fede nella grandezza della musica. Toscanini diceva che lo elevava dalla terra, gli toglieva il peso e andava diretto in ginocchio. Poi il cataclisma inaspettato del quarto con un finale vocale. Qui, Beethoven manipola Schiller: venti minuti con una marcia che porta al crescendo progressivo con la sensazione di una piazza invasa da una folla, con esplosione del coro».
Perché a Verdi non piacque il Quarto movimento?
«A volte i geni hanno un rigetto istintivo verso qualcosa di inaspettato. Come la reazione emotiva che ebbe Mahler quando ascoltò la Tosca».
L’inno alla gioia è adatto come Inno europeo o era meglio Bach?
«Sì, la musica è talmente grande che va sotto la pelle, è una scelta da condividere. Bach? Ha una sfera diversa anche nel significato umano».
Come ha fatto una tale sinfonia a diventare musica per film, pubblicità…?
«Perché è unica anche rispetto alle precedenti. La dirigo da trent’anni e ogni volta scopro qualcosa di nuovo».
Partitura unica È una partitura unica e talmente grande che non basta una vita per comprenderla