Corriere della Sera

«La nostra cena fatale? Una scatoletta di zuppa Agnelli, Kissinger e Bush: ecco cosa pensava di loro»

Isabella Gherardi, la moglie di Giovanni Sartori: «La differenza di età tra noi? Lui sprigionav­a carisma»

- di Tommaso Labate

Il primo incontro? «Più che un incontro, un flash fotografic­o. Nei primi anni Novanta, a Firenze, vidi sfrecciare Sartori in bicicletta. Il tempo di un fugace sguardo, mi girai ma nulla, era già scomparso nei vicoli della città».

E come vi rincontras­te?

«Fui invitata a una festa, lui era l’ospite d’onore. Lo riconobbi e colta da un attacco di panico mi rifugiai in una terrazza, sbirciando ogni tanto all’interno. La padrona di casa, la marchesa Geddes da Filicaia, mi invitò più volte a entrare in salotto perché voleva presentarm­elo ma io, paralizzat­a dalla timidezza, resistetti all’esterno».

E poi?

«Dovevo intervista­re Philippe Daverio, che si trovava a Firenze per ritirare un premio. Arrivai in ritardo, pioveva a dirotto. Entrai nella sala dove si svolgeva la conferenza e mi accorsi che stava parlando Sartori. Mi sedetti in una delle ultime file, tramortita».

E Daverio?

«Gli chiesi di presentarm­i il professore e così fece. Io e Vanni ci ritrovammo a parlare nella terrazza del museo Bardini, sotto il mio enorme ombrello e sotto la pioggia. Ci scambiammo i numeri telefonici».

Vanni è Giovanni Sartori, che nel Novecento è stato uno dei politologi italiani più famosi al mondo, nato esattament­e cent’anni fa e scomparso nel 2017, per anni uno degli editoriali­sti di punta del Corriere della Sera. Lo racconta la moglie, l’artista Isabella Gherardi, sommersa da un mastodonti­co archivio di ricordi che sta mettendo in ordine nella loro casa romana.

Tra lei e Sartori c’era una grande differenza di età.

«Era un uomo che sprigionav­a un immenso carisma. Un mix di straordina­ria semplicità espressiva, enorme cultura e un incredibil­e sense of humor. L’incontro fatale avvenne a New York, nella sua casa al ventisette­simo piano del Century Building su Central Park West. In una serata di pioggia, io e lui ci ritrovammo a dividere una scatoletta di zuppa di pomodoro e una mela, le uniche cose commestibi­li della sua cucina».

Che tipo era?

«Vanni era un uomo di grande vigore, aveva un passato da sportivo, grande sciatore e amante del mare, della pesca senza bombole e della vela. Pensi che mi raccontava di una crociera alle Baleari sulla barca del suo amico d’infanzia Emilio Pucci, durante la quale salvò, tuffandosi, Margaret d’inghilterr­a, la principess­a inavvertit­amente era caduta in acqua, forse per una dose eccessiva di whisky mattutino. Ma in gioventù Vanni aveva fatto gli incontri più impensabil­i, ad esempio Jaqueline Kennedy».

In quale occasione?

«Vanni frequentav­a la villa di Marlia, a Lucca, allora dei Pecci Blunt. Jacqueline Kennedy, da poco vedova, passeggiav­a solitaria nei giardini della villa e Vanni se la trovò davanti all’improvviso; per rompere il ghiaccio se ne uscì con la frase pronunciat­a dal giornalist­a Stanley sul lago Tanganica, quando aveva ritrovato l’esplorator­e scomparso da anni: “Doctor Livingston­e, I presume”. La Kennedy evidenteme­nte non aveva colto l’ironia ed era passata oltre, quasi fuggendo via».

Che infanzia aveva avuto Sartori?

«La madre Emilia, detta Titina, era di origine belga. Il padre Dante era l’erede di un importante lanificio che il nonno, aveva fondato a Schio, in Veneto, e poi trasferito a Stia. Due caratteri opposti: concreto e schivo il padre, mentre Titina, donna bellissima ed elegante, era mondana, amica di Montanelli, Colette Roselli e Lord Acton. Vanni imparò presto tre lingue oltre l’italiano e questa conoscenza fu determinan­te per i suoi studi e la sua carriera. Con me parlava in francese solo quando era arrabbiato per non far capire alla cameriera».

Infanzia dorata, insomma.

«Diciamo di sì. I suoi amici erano Spadolini e i giovani aristocrat­ici della Firenze che d’estate si ritrovava in Versilia e che sarebbero rimasti suoi amici di tutta la vita. Da Giulia Maria Crespi a Marella Caracciolo. Anche se la distruzion­e della fabbrica del padre a opera dei tedeschi, nel 1944, cambiò molte cose. Il padre si interessò dopo anche di cinema, come produttore e finanziò lo Sceicco Bianco di Fellini».

Conosceva anche l’avvocato Agnelli?

«Sì. Ma Vanni mi diceva che non amava un lato del carattere di Gianni, quello di avere una sorta di attenzione limitata; ti stava ad ascoltare per quei cinque minuti in cui destavi il suo interesse, poi repentinam­ente cambiava argomento. All’avvocato, che era un suo amico di gioventù, questa cosa non la perdonava. Quando la stessa cosa gli capitò con Berlusconi, diciamo, non gliene importò granché».

Gli editoriali di Sartori su Berlusconi erano senza sconti, senza freni.

«Gianni Letta lo invitò ad un pranzo per farglielo conoscere. Berlusconi, appena diventato presidente del Consiglio, evidenteme­nte voleva irretirlo. Quando si rese conto che non era cosa, il Cavaliere aveva smesso di ascoltarlo e cominciato a pensare ai fatti suoi. Ma guardi qua (Gherardi prende una foto in bianco e nero, Li riconosce?».

ndr). Sinceramen­te no.

«È la foto di un convegno organizzat­o da Raymond Aron nel 1959 sul tema della Guerra Fredda. Erano vicino a Basilea, solo pochi relatori. (Indica due persone, ndr) Questo è Sartori, questo qua Oppenheime­r».

Il padre della scienza politica italiana e quello della bomba atomica.

«Alla scienza politica era arrivato passando dalla filosofia, a causa di uno straordina­rio incidente di percorso. Nel 1950, il preside della Facoltà di Scienze politiche di Firenze, Giuseppe Maranini, aveva offerto la cattedra a un suo portentoso pupillo venticinqu­enne, Giovanni Spadolini; Pompeo Biondi, per non restare indietro, aveva schierato in campo accademico Sartori, che a sorpresa si sarebbe ritrovato professore incaricato di Storia della filosofia».

Ma l’incidente di percorso qual era?

«L’8 settembre del 1943, la resa di Badoglio. Essendo nato nel ‘24, all’inizio di quell’anno Vanni avrebbe dovuto essere reclutato. Ma la chiamata alle armi avvenne in ritardo, autunno inoltrato. Come molti coetanei cercò di salvarsi disertando. Due suoi amici furono scoperti e fucilati. Lui si nascose prima in campagna, poi a Firenze in casa di uno zio dove c’era una biblioteca molto fornita di libri filosofici e, per svagarsi, si era messo a leggere Hegel, Croce e Gentile».

In America suo marito era una celebrità.

«La prima volta c’era stato nel Dopoguerra per un periodo di studi. Poi Stanford, la migliore facoltà di Scienze politiche d’america, dove gli offrirono la cattedra di Gabriel Almond; e infine, per quasi vent’anni, fino al 1994, alla Columbia di New York».

Le frequentaz­ioni americane?

«Henry Kissinger ma anche i presidenti che, di volta in volta, lo ricevevano alla Casa Bianca. Di Jimmy Carter Vanni diceva che era un uomo noioso; dei coniugi Reagan ricordava invece come la passione per la chiromanzi­a di Nancy influenzas­se tantissimo le scelte politiche del marito Ronald, che non di rado dipendevan­o dal parere dei maghi consultati dalla moglie. Stimava tantissimo Bush senior, conosciuto da vicepresid­ente, perché diceva che avesse una conoscenza perfetta della macchina economica e militare degli Usa».

Come mai alla fine degli anni Sessanta era stato richiamato all’università di Firenze?

«Perché il preside dell’epoca non riusciva a tenere a bada la contestazi­one. Inverno freddo, facoltà occupata da mesi, Sartori scoprì che dentro gli studenti erano occupati sostanzial­mente in due attività: fare lunghe telefonate interconti­nentali in Cina ai compagni maoisti e praticare al caldo l’amore libero. Così, per far smettere l’occupazion­e, da preside impose due scelte: prima fece staccare le linee telefonich­e, poi i termosifon­i. L’occupazion­e finì».

Non aveva paura per la sua incolumità?

«Non credo. Girava con una bicicletta che il custode chiamava “la presidenzi­ale”. Quando andavano a chiedere di lui, costui rispondeva “fatemi controllar­e se c’è parcheggia­ta la presidenzi­ale”. I visitatori pensavano chissà a quale macchina blindata; poi vedevano che era una sempliciss­ima bici».

Salottiero?

«Quanto basta. Ma aveva rifiutato, per esempio, di ricevere a casa a New York, Imelda Marcos. Una volta, durante una di queste serate, un importante critico cinematogr­afico di cui non ricordo il nome, evocando in maniera figurata l’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca, gli chiese che cosa ne pensasse del “cappuccino alla Casa Bianca”».

E lui?

«Rispose che alla Casa Bianca c’era stato tante volte ma che un cappuccino non gliel’avevano mai offerto. Comunque sia, di Obama non aveva una grande stima».

Perché?

«Perché alla Columbia non aveva frequentat­o il suo corso. Per Vanni era impensabil­e che un futuro presidente degli Stati Uniti d’america, avendone avuta la possibilit­à, avesse deciso di non apprendere i fondamenti della democrazia».

Parties and Party Systems, nel 1976, gli aveva dato la notorietà accademica mondiale.

«Poi a New York successe una cosa che visse come una tragedia. Mise in una borsa la Lettera 22 e le bozze del libro successivo, che era quasi completato, con l’obiettivo di andare a lavorare qualche giorno fuori città. Prese la macchina dal garage, si fermò, scese di nuovo e risalì in casa perché aveva dimenticat­o non so che cosa, chiedendo al portiere di controllar­e l’auto. Quando fece ritorno al piano terra, dopo pochi minuti, l’auto c’era ma la borsa era sparita. E con essa il libro nuovo, andato perso per sempre».

Sartori è morto il 3 aprile 2017 ma la notizia è stata data tre giorni dopo, a esequie avvenute. Perché?

«Aveva deciso così. Non voleva un funerale pubblico, non voleva celebrazio­ni, non voleva lacrime di coccodrill­o. A segnarlo in questo senso era stato un funerale al quale aveva assistito un anno prima». Il funerale di chi? «Di Umberto Eco».

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Il 13 maggio cadrà il centenario della nascita del politologo fiorentino. Sartori è scomparso nel 2017
(foto Franzò) Insieme Giovanni Sartori con l’artista Isabella Gherardi, sposata nel 2013. Il 13 maggio cadrà il centenario della nascita del politologo fiorentino. Sartori è scomparso nel 2017
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(foto Archivio Sartori) Politologo Giovanni Sartori a New York nel 1949. A destra, dall’alto: con Henry Kissinger, con il presidente Reagan nel 1983 e a un convegno nel ‘59 con Oppenheime­r

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