Politica e libertà, Rushdie attacca
Lo scrittore ferito nel 2022, protagonista a Torino, difende Roberto Saviano, portato in tribunale dalla premier «Meloni sia meno infantile. Dopo le 15 coltellate ora temo solo le brutte recensioni»
C’è la parola libertà in quasi ogni frase che Salman Rushdie pronuncia al Salone del Libro di Torino, alla sua prima visita in Italia dopo le quindici coltellate ricevute il 12 agosto 2022, mentre si trovava sul palco del Chautauqua Institution, nello Stato di New York. Libertà di parlare, di scrivere, di criticare anche duramente, come ha fatto il suo amico Roberto Saviano con la premier Giorgia Meloni che l’ha portato in tribunale. Rushdie la invita dal palco a «essere meno infantile». «A rischio mio personale devo dire che i politici dovrebbero farsi la pelle un po’ più dura perché un politico oggi, oltre ad avere grande potere, ha anche molta autorità. Quindi è normale che qualcuno ne parli direttamente, magari male, anche usando una brutta parola come quella che ha usato Roberto. Io le consiglierei di essere meno infantile, di crescere».
Oggi il dialogo con Roberto Saviano a partire da Coltello (Mondadori), il libro in cui ricostruisce il tentato omicidio, 35 anni dopo la fatwa dell’ayatollah Khomeini, sarà un evento aperto al pubblico; ieri, nell’incontro con i giornalisti, Rushdie ha offerto con understatement una narrazione che, come nella letteratura migliore, tiene insieme il pubblico e il privato, l’amore e l’odio, la paura e il coraggio. «La reazione più giusta rispetto agli odiatori è dire: se non ti piacciono i miei libri, sei libero di leggere quelli di chiunque altro, le librerie ne sono piene», ha esordito.
Non si è sottratto alle inevitabili domande sui fronti caldi del presente, dall’ucraina alla Palestina, notando che ogni parte in causa propone una sua narrativa inconciliabile con quella opposta, ma ha anche voluto precisare di non avere niente di interessante da dire: «Leggo le notizie come tutti gli altri. Non ho una soluzione mia da proporre. Un buono scrittore deve porre buone domande, non necessariamente dare buone risposte». È convinto però che i pericoli dell’estremismo non vengano solo dall’islam radicale: «Prendiamo gli evangelici in Usa. È responsabilità loro se
c’è stata questa svolta brutale a destra, a partire dalle istanze antiabortiste. Trovo strano che dei cristiani possano pensare di venire rappresentati da una persona come Donald Trump, il meno cristiano al mondo. Anche in India c’è una recrudescenza dell’estremismo induista che sta cercando di minare le radici laiche dello
Stato». È sui temi che lo riguardano personalmente che Rushdie ricorda, spiega, analizza. Dopo la fatwa molti, tra gli intellettuali, dissero che in un certo senso se l’era andata a cercare: «Anche il Papa (Wojtyła, ndr) era da quella parte. Tra loro c’erano persone che conoscevo e reputavo amici. È stato molto doloroso, più delle
parole degli islamici. Il supporto che ho avuto ora è stato decisamente più unanime e di questo sono grato a tutti. Per fortuna sono una persona che non sta troppo a rimuginare, anche se naturalmente mi ricordo perfettamente tutti i loro nomi».
Come si vive dopo un tentato omicidio? Rushdie lo spiega: «Bisogna trovare la for
za di tornare indietro, di lavorare come prima. Per sei mesi mi sono detto: che cosa faccio? Riuscirò a tornare quello di prima? Poi è scattato un interruttore, mi sono seduto alla scrivania e ho pensato: ci provo, vediamo cosa succede. Scrivo da 50 anni, ho quest’abitudine, questa disciplina. Non ho altre abilità, non sono un ballerino né una star del calcio».
Difficile dire se la libertà di scrivere e di parlare che ha sempre esercitato valeva il prezzo che ha pagato: «Certo, avrei preferito non essere accoltellato 15 volte. Ovviamente è stato un tentativo di silenziare la mia voce. Paradossalmente però, dopo questo, la mia voce suona più forte e c’è molto più interesse per quello che dico». Coltello è nato per il bisogno di riguadagnare quella forza che altri volevano togliergli. «Ho cercato di contrastare una narrazione contraria alla mia, ho voluto essere io a condurla. Mi sono detto: questa è la mia storia e voglio raccontarla così. Ecco perché nel libro non scrivo mai il nome all’attentatore (Hadi Matar, che lo scrittore chiama A., come Asino ndr). Ho ribaltato la situazione: ho reinventato io lui, mentre lui voleva reinventare la mia storia». Il libro è il coltello con cui risponde all’assalitore: «Avrei voluto incontrarlo, sedermi con lui in una stanza e dirgli: “Spiegami”. Avrei voluto — scrive — che mi guardasse nell’unico occhio rimasto e mi dicesse la verità». Ma ha scelto un’altra strada: «Ho cercato, attraverso una conversazione immaginaria, di entrare nella sua testa e capire come sia possibile passare da una situazione di totale indifferenza all’omicidio, ho cercato di capire le motivazioni di questo giovane che non sapeva nulla di me e dei miei libri, aveva la fedina penale pulita, non era in nessuna lista di sospetti».
Torna a parlare di libertà, a proposito di certe derive legate alla cancel culture,a certi estremi del politicamente corretto: «Da un certo punto di vista non mi dispiace non essere un giovane scrittore di 24 anni che deve pubblicare il suo primo libro. Vedo tra loro un certo nervosismo, sono tutti un po’ esitanti su cosa possono scrivere, su che cosa è permesso. Io sono troppo vecchio per sottostare a qualunque pressione, non l’ho mai fatto e non voglio cominciare adesso. Ho sempre cercato di scrivere in modo corretto, secondo quello che penso». Dopo quello che è successo di che cosa può avere paura Salman Rushdie? La risposta è in una battuta: «Delle recensioni negative».
L’impegno e il dolore L’autore di «Coltello»: «Chi detiene potere deve avere la pelle più dura. Agli odiatori dico: comprate i libri di qualcun altro»