«Brivido, rime (e un tocco di bluff) Così 25 anni fa ho creato il Gruffalò»
Julia Donaldson racconta la genesi del mostro ideato con Axel Scheffler «Proporlo allora fu una scommessa». Domani in edicola le sue avventure
Quando è nato sembrava troppo brutto per i piccoli lettori. Un tremendo mostro peloso con zanne bagnate di bava e terribili artigli. Teoricamente avrebbe dovuto chiamarsi «tiger», ma con un nome così era molto difficile trovare le rime. Allora la sua creatrice, l’inglese Julia Donaldson, dopo qualche perplessità è passata all’idea di un bufalo e da lì si è inventata il nome Gruffalo (che nella versione italiana ha sempre l’accento). Così la sua identità si è fatta subito più definita e l’illustratore Axel Scheffler ce l’ha messa tutta per renderlo spaventosamente irresistibile. Le sue avventure affondano nei territori fantastici, pericolosi e improbabili che tanto piacciono ai più piccoli. Con la sua adorabile goffaggine il Gruffalò ha stregato i bambini di tutto il mondo: tradotto in 100 lingue, ha venduto 13,5 milioni di copie dei suoi albi illustrati (di cui 750 mila in Italia), trasformandosi poi in peluche, costume di carnevale e ispirando numerosi gadget. Ora festeggia il suo venticinquesimo compleanno e per celebrare la creatività dei suoi inventori, Donaldson e Scheffler, in allegato con il «Corriere della Sera» e con «La Gazzetta dello sport» arriva in edicola, da domani, una collana di albi in grande formato che ripropone, oltre alle avventure del Gruffalò, le altre storie più belle e famose della celebre coppia.
In questa occasione il «Corriere» ha raggiunto — via email — Julia Donaldson, nella sua residenza nei pressi di Glasgow, per cercare di scoprire i segreti di questo travolgente successo.
Nel 1999 quando ha inventato il mostro «con gli occhi arancioni, la lingua molliccia e aculei violacei sulla pelliccia» si aspettava una tale longevità del personaggio?
«Assolutamente no! Addirittura, avevo paura di non trovare un editore, è stata una scommessa anche perché venticinque anni fa proporre personaggi così fuori dagli schemi era piuttosto impopolare».
Invece il successo delle sue creazioni, in squadra con Axel Scheffler, è stato talmente di impatto, che siete stati soprannominati i «Lennon e Mccarthy della letteratura infantile»: ora che ai bambini viene spesso dato lo smartphone, per intrattenerli, ha
notato un’attenzione diversa verso i libri?
«L’abitudine di mettere i bambini sempre più precocemente davanti allo schermo del telefono mi preoccupa, ma sono convinta che fortunatamente ci siano ancora molte famiglie che raccontano ai loro bimbi le storie della buonanotte».
Pensa che troppa tecnologia, usata al posto dell’oggetto libro, possa minare la creatività dei bambini?
«Quello che mi spaventa di più è la banalità di ciò che può offrire la Rete, contenuti social che catturano totalmente gli adulti: vedo genitori che passano il tempo a fare scrolling anziché parlare con i loro figli. Quindi non ne risente solo la creatività, ma anche l’attenzione, che è fondamentale per stimolare un sano processo di crescita».
La storia del Gruffalò nasce dalla bugia di un topolino che millanta l’esistenza di un mostro per salvarsi da animali più grandi e pericolosi di lui. Pensa che questa origine un po’ truffaldina rafforzi la simpatia verso il personaggio?
«Senz’altro, i bambini sono sempre d’accordo con l’idea di usare la menzogna pur di uscire da una situazione incresciosa. Mentire, inventare scuse e situazioni complicate è sempre stato alla base della letteratura per ragazzi. Per l’immaginario infantile, maggiore è il bluff, più la storia diventa intrigante».
Il successo del Gruffalò è anche dovuto al nome perfetto, originale ma anche spaventoso, che ha scelto per lui. Tutte le storie che scrive han
no testi accattivanti arricchiti da rime baciate che divertono tanto i bambini. Quanto è faticoso trovare sempre le parole giuste?
«Penso che questa scelta stilistica derivi dalla mia esperienza di cantautrice, inoltre ho sempre adorato le filastrocche. La prima storia per bambini che ho composto si intitolava A Squash and a Squeeze ed è diventata un libro solo dopo essere stata una canzone. Oltre alla rima cerco sempre il ritmo delle parole e con tanti anni di pratica farlo è molto più facile».
La sua partnership creativa con Axel Scheffler ha sfornato piccoli capolavori: come vi organizzate? Nascono prima le parole o le illustrazioni?
«Ho un processo creativo molto definito. Partiamo sempre dal testo e nessuno
deve sapere che cosa sto scrivendo (solo qualche volta mi confido con mio marito) ma tengo tutto assolutamente segreto. Non racconto nulla ad Axel né all’editore perché, nonostante la grande esperienza di lavoro assieme, temo il loro giudizio. Potrebbero esprimere un’opinione che mi blocca».
«Gli Smei e gli Smufi» racconta in versi di due tribù ostili, per colore e ideologia, rossi i primi e blu i secondi, che si odiano. Ma fra ostacoli e pregiudizi l’amore riuscirà a vincere le discriminazioni. Un messaggio importante sulla solidarietà. Come è riuscita a farlo passare con allegria e leggerezza?
«Non è che sia così originale! Shakespeare ha avuto la stessa idea quando ha scritto Romeo e Giulietta. Penso che sia una buona strategia narrativa quando l’autore mette insieme due temi tradizionalmente molto lontani fra loro. Ho pensato che ad Axel sarebbe piaciuta un’ambientazione un po’ spaziale, fantascientifica, che ho poi amalgamato con il messaggio che arrivava da Romeo e Giulietta per far capire quanti danni possono fare le discriminazioni e i pregiudizi».
Perché pensa che i bambini siano sempre molto attratti dai personaggi più brutti e spaventosi?
«Ma è la stessa cosa anche per gli adulti! Le storie sono sempre noiose se non c’è il brivido del pericolo. La paura è molto intrigante, basta lasciar poi trapelare un indizio che faccia pensare che alla fine le cose si sistemeranno».