Corriere della Sera

Ha compiuto missioni sotto copertura in 60 Paesi Aveva 30 passaporti falsi. A Roma si sentiva a casa: ci abita ancora

- di Stefano Lorenzetto

Ero il capo della Cia in Italia La spia? Un lavoro divertente

Nome: Robert. Cognome: Gorelick. Età: 70 anni. Profession­e: ex spia («può scriverlo, non mi offendo, era il mio mestiere, benché fossi un generale a tre stelle»), dal 2003 al 2008 capo stazione della Cia nel nostro Paese, con sede a Roma, città dov’è rimasto a vivere dopo il pensioname­nto. Segni particolar­i: mi versa il caffè da una moka Bialetti tricolore. «Il primo giorno che arrivai nella Capitale mi dissi: sono a casa! Vedo i difetti del Belpaese, ma lo adoro. Mi sento profondame­nte italiano, con tanto di passaporto. Ero arrivato ad averne 30, di passaporti».

Veri o falsi?

«Falsi. Oggidì le spie devono essere vere: dai dati biometrici verrebbero subito scoperte. Per la Central intelligen­ce agency ho vissuto in 6 Stati e compiuto missioni sotto copertura in altri 60».

Quali presidenti ha servito?

«Reagan, Bush padre, Clinton e Bush figlio, che non era affatto stupido, nonostante parlasse un inglese scadente. Ho lavorato per tre anni nel quartier generale di Langley e sono stato responsabi­le di stazioni della Cia in America Latina».

In quali Paesi?

«Posso dirne due: Perù e Panama».

Come fu reclutato?

«Ero infatuato della Francia, volevo conoscerla. A 16 anni lasciai New York per vivere vicino ad Avignone. Un amico di famiglia, un ebreo fuggito dalla Germania nazista, che era stato nell’oss, l’office of strategic services, fece il mio nome. Anche i miei nonni erano ebrei, giunti negli Usa dalla Russia ai tempi dello zar Nicola II. Uno invece scappò da Lenin».

La sua prima missione?

«In un Paese oltrecorti­na. Portai una valigia di soldi alla famiglia di un nostro agente, arrestato e giustiziat­o senza che moglie e figli ne sapessero nulla. Finsi che fosse il risarcimen­to di una polizza assicurati­va sottoscrit­ta dal loro congiunto. Ne vado tuttora molto fiero».

Oggi come si entra nella Cia?

«Si può presentare domanda su Internet. Ma vale anche per l’mss cinese. Ai miei tempi era un programma d’élite».

Sono accettati anche gli stranieri?

«No, solo americani, o almeno candidati con la doppia cittadinan­za».

Qui il capostazio­ne fa partire i treni.

«Quella di Roma era l’unica stazione in Italia con basi a Napoli, Milano, Aviano».

Contava come il numero 2, mi dicono.

«Il direttore della Cia è un politico. Il numero 2 è il capo del servizio clandestin­o. Il vostro Paese era in un momento difficile per il caso Abu Omar e l’uccisione di Nicola Calipari, collega del Sismi».

Ha assoldato molti agenti?

«Fonti, non agenti. Era il mio lavoro».

Anche giornalist­i?

«Uno solo. Lo incontravo con capelli e baffi finti, e occhiali scuri. Una volta temetti che la parrucca, troppo stretta, mi schizzasse via dalla testa. Era vietato servirsi di giornalist­i e preti. Dovevo chiedere un permesso speciale a Langley».

Giuliano Ferrara confessò d’aver ricevuto dollari dalla Cia «avvolti in una busta giallina, fantastica, del peso giusto».

«Non so, a quel tempo non ero a Roma. Molte fonti non si facevano pagare».

Lei godeva di un ricco stipendio?

«Guadagnava di più la società di copertura che avevo costituito in Italia. Ma gli utili a fine anno li mandavo alla Cia».

Allora perché si fece assumere?

«Sono occidental­e, prima che americano. C’era la guerra fredda e c’era una civiltà da difendere. Ci credevo molto».

Quali sono i migliori controspio­naggi, Cia a parte?

«Mossad israeliano e Mi6 britannico».

Roberto D’agostino mi ha rivelato che «i servizi vaticani sono fantastici».

«Se lo dice Dagospia... So soltanto che a Domenico Giani, all’epoca comandante della Gendarmeri­a, fornivo informazio­ni in vista dei viaggi del Papa. La capillarit­à delle parrocchie nel mondo assomiglia a quella dei carabinier­i in Italia, che finora ha scongiurat­o un attacco dell’isis».

Nel senso che i sacerdoti confessano?

«Questo non l’ho detto».

Da spia rispettava le leggi italiane?

«L’agente della Cia rispetta solo quelle degli Stati Uniti. È un mestiere illegale».

In «Spy game», Nathan Muir, dirigente della Cia impersonat­o da Robert Redford, spiega al pivello Tom Bishop, alias Brad Pitt, che per fare la spia «bastano un pezzo di gomma da masticare, un coltellino e un sorriso». È così?

«Non ho visto quel film. A Langley si diceva che James Bond non sembra vero perché non usa mai la macchina per scrivere. Io avevo una Lettera 22».

Che se ne faceva della Olivetti?

«Rubavo segreti. Dovevo batterli su carta per farli arrivare in America. In seguito mi fu assegnato un aggeggio munito di stilo: premevo le letterine dell’alfabeto, senza poter rileggere ciò che avevo scritto, e spedivo con una ricetrasmi­ttente. Ogni mese da Langley mi arrivava una risma di fogli A4».

Non aveva smesso di usare la Olivetti?

«Erano di carta chimica. Dovevo svilupparl­i in camera oscura. Contenevan­o le istruzioni sui compiti da assolvere».

Ma che fatica!

«Era un’epoca romantica, molto più divertente di adesso. Dove andavo sotto copertura, per prima cosa ordinavo biglietti da visita falsi e noleggiavo una casella postale. Oggi non potrei più farlo».

Al ristorante Muir individua una potenziale minaccia vedendola riflessa nella cloche d’argento che copre il piatto.

«Devi ricordarti le facce di tutti quelli che incontri e le targhe delle auto per avere la certezza di non essere pedinato. Hanno continuato a sorvegliar­mi anche dopo che ero andato in pensione».

La famiglia sapeva del suo lavoro?

«Mia moglie solo che ero nella Cia. Le parlavo passeggian­do per strada, nel timore di avere microspie in casa. Ai figli lo dissi quando avevano 17 e 13 anni».

Viveva nella paura di essere ucciso?

«Sì, certo. E ci andai vicino due volte, in America Latina e in Africa. Per difendermi avevo una pistola».

Non potevo arruolare giornalist­i e preti. Avevo la Colt, ma usavo la Olivetti Lettera 22. Non è vero che feci cadere il governo Prodi

Una Beretta?

«Magari! Colt. Un disastro. Ora almeno hanno in dotazione la Glock austriaca».

La differenza fra lei e l’agente 007?

«La regola era get off the mark, stai fuori dal bersaglio. Se spari, hai fallito».

Ma aveva licenza di uccidere?

«Per difesa personale».

Frequentav­a molte belle donne?

«È un lavoro di tradimento, ma non ho mai mentito, né come spia né come marito. La fedeltà è importante. Rimasi vedovo nel 2009, dopo 30 anni di matrimonio. Sono risposato con una francese. Vivo un po’ qui e un po’ a Bruxelles».

Sempre in viaggio, come James Bond.

«Agosto e dicembre li passo con mio padre Gary a Brooklyn. Non vado mai a Washington. Arrivo soltanto fin dove ci sono stazioni della metro di New York».

Lì il marito di sua figlia lavora per Borsalino, giusto? Tipici cappelli da spia.

(Risata). «La trovo preparato. È vero, mio genero aveva un negozio in cui vendeva i Borsalino. Oggi è un alto dirigente di Hat Co., la più grande azienda americana produttric­e di cappelli».

Lei era uno specialist­a nella «controprol­iferazione», cioè nell’impedire agli «Stati canaglia» di entrare in possesso delle armi per la distruzion­e di massa.

«Corretto. Andai anche in Iraq».

Saddam Hussein però non le aveva.

«Disponeva di gas nervini non identifica­ti, usati per sterminare i curdi ad Halabja. E progettava la bomba atomica».

La Cia c’entra con il sequestro Moro?

«Assurdo. C’erano nostri ministri favorevoli al compromess­o storico. Penso piuttosto ai servizi della Germania Est».

Fu accusato d’aver propiziato la caduta del governo di Romano Prodi.

«Una balla. Enzo De Chiara, amico degli Usa, m’invitò a pranzo con Clemente Mastella e Sergio De Gregorio, che ventilaron­o questa eventualit­à. Rimasi stupefatto e tacqui. Il senatore De Gregorio spacciò la panzana a Silvio Berlusconi».

Vede minacce all’orizzonte dell’italia?

«Sì, perché qui c’è il Vaticano. Per gli islamici radicali simboleggi­a la Chiesa».

Si fida di Cina e Corea del Nord?

«Non mi fido di nessuno».

E di Vladimir Putin?

«Ho detto di nessuno. Spiace vedere un grande Paese, una grande storia e una grande cultura sporcati dai crimini che la Russia commette in Ucraina».

Ci porterà alla terza guerra mondiale?

«No. Putin non se lo può permettere».

Siamo tutti intercetta­ti?

«La possibilit­à esiste. Ma i servizi segreti se ne fregano se lei e io ci spediamo una mail. Non siamo mica terroristi».

Il web è una risorsa o una minaccia?

«Entrambe le cose. Oggi più una minaccia. Pensi solo ai folli cospirazio­nisti di Qanon. O a Mosca, con la disinforma­zione propalata in Rete sui vaccini anti Covid, sulla Brexit, sulle presidenzi­ali del 2016 negli Stati Uniti, sull’imminente voto europeo. I social vengono usati ovunque per condiziona­re le elezioni».

Da dov’è saltato fuori il coronaviru­s?

«Ne ho parlato con vari governi. Può essere l’evoluzione di un virus normale. Non esistono prove che sia sfuggito dal laboratori­o cinese di Wuhan».

Teme Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft, il cosiddetto Gafam?

«No, anzi li adopero. Mio padre produceva sistemi di allarme, ha 97 anni, è lucidissim­o, non sa nulla del Gafam, guarda solo la tv. Ma è come se vivesse fuori dal mondo. Io sono molto tecnologic­o».

Se non avesse fatto la spia, che cosa sarebbe potuto diventare?

«Professore universita­rio: studiavo diritto internazio­nale a Ginevra. Grazie a Dio non è accaduto. Mi serviva una vita d’azione. L’intelligen­ce me l’ha offerta».

Visto che cita Dio, teme che un giorno le chieda conto di qualche malefatta?

«Non sono credente. Ho lavorato per il bene. Lasciai la Cia perché si stava trasforman­do in un corpo paramilita­re».

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Pericolo Robert Gorelick, 70 anni, nella sua casa di Roma. «Ho rischiato due volte la vita». In basso, con ospiti nel quartier generale della Cia a Langley
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