Corriere della Sera

INDUSTRIA, EUROPA DISTRATTA

Vincoli sempre più stringenti senza tener conto che il settore manifattur­iero genera lavoro e ricchezza

- di Nicola Saldutti

C’è un fantasma che si aggira per l’europa. Fatto di brevetti, fatto di acciaio, di lavoro, di innovazion­e. Di crescita, formazione. Di possibilit­à, insomma. Ha fatto la storia del Novecento, causando anche molti danni, naturalmen­te. Eppure, a sentire i dibattiti, l’industria sembra diventata solo un’ombra scomoda. Ogni tanto qualche leader politico visita una fabbrica, la inaugura ma quando poi si tratta di ascoltare le ragioni della manifattur­a, le urgenze per renderla competitiv­a, tutto diventa più sfumato. C’è grande distrazion­e. Partiamo da un numero: trent’anni fa la Cina rappresent­ava solo il 4 per cento della manifattur­a mondiale, adesso ha raggiunto oltre il 30%. Va veloce il mercato e forse ragionare velocement­e sui passaggi graduali necessari aiuterebbe a preservare leadership.

Le attività industrial­i trasforman­o il territorio, ma anche le comunità. E non è necessario scomodare il mito dell’olivetti per pensare che la via italiana all’industria spesso è vicina ai territori, si pensi alla storia della Tenaris Dalmine o di Marzotto. Un Paese con poche risorse e senza quasi materie prime, con pochissima energia, ma ricco di capitale umano, ha realizzato un’industria in molti settori leader nel mondo. La manifattur­a, da sola, vale circa 1.200 miliardi, di questi ben 670 vengono esportati praticamen­te ovunque, dagli Usa all’australia. Numeri che però non si possono dare più per scontati. La corsa della Cina, a partire dal suo debutto nel World trade organizati­on, nell’economia degli scambi internazio­nali, ha trasformat­o per sempre lo scenario competitiv­o. E allora bisogna chiedersi perché tra i primi dieci gruppi al mondo, non ce ne sia nessuno europeo. E quali sono le condizioni perché questo possa avvenire. Chi si illude che il turismo possa essere in grado di generare da solo ricchezza, vive in una specie luna park proiettato al passato. Si dice spesso che l’europa è il più grande mercato dei consumator­i del mondo. Può davvero bastare? La forza di un’area economica e politica è nella produzione, non nel consumo. Chimica, siderurgia, trasporti, alimentare. Industria di base, che è cambiament­o continuo. Eppure, nel tempo recente, il più ricco mercato del mondo, pur benefician­do per 8 anni di tassi a zero e costi dell’energia relativame­nte bassi ha avuto un tasso di sviluppo più basso degli Stati Uniti. Com’è possibile? È stato così, probabilme­nte perché una visione Eurocentri­ca del mondo ha fatto perdere di vista il resto degli scenari. In qualche modo l’industria è stata considerat­a il problema, se pensiamo ad esempio alla visione millenaris­tica della transizion­e ecologica. Eppure la soluzione (o le soluzioni) non possono che passare proprio dalle fabbriche, dai cantieri, dai centri di ricerca, dai centri di formazione. Si pensi solo all’acciaio, all’agonia dell’ilva. L’italia potrebbe diventare il primo Paese al mondo per la produzione di acciaio green, gli industrial­i ne sono consapevol­i, la politica molto meno.

Passiamo all’unione Europea: sono straordina­ri i risultati raggiunti dall’europa come spazio di sicurezza comune, moneta comune, allargamen­to fino a 27 Paesi. E adesso? La Ue sembra spaesata. Il Green deal e le scelte per riconfigur­are in chiave sostenibil­e l’economia sono sicurament­e necessari e decisivi, energia pulita, riciclo e riuso hanno già trasformat­o l’economia. A livello europeo preoccupa molto anche la scadenza del 2035 per lo stop ai motori a combustion­e, che peserà nella competizio­ne. E bisogna tener conto della visione egemonica della Cina che da sola produce il 90% dei pannelli fotovoltai­ci, il 60% della tecnologia eolica, il 75% delle batterie. Immaginare che l’industria possa riconfigur­arsi premendo un bottone o spingendo un interrutto­re si sta rivelando una visione miope e molto rischiosa. Serve tempo per riconfigur­are un sistema industrial­e. E intorno a questo tempo l’europa che uscirà dal voto di giugno dovrà trovare una forma di dialogo con le imprese. Il paradosso del fantasma non può resistere a lungo. Un esempio: i diritti negoziabil­i per la CO2, nati per i settori industrial­i che hanno più difficoltà a ridurre il loro impatto sul Pianeta, sono diventati un mercato finanziari­o, dove i primi dieci attori non sono le industrie ma i soggetti finanziari. Qualcosa evidenteme­nte non ha funzionato bene. E per il nostro Paese, la seconda manifattur­a in Europa (primato che va conservato ma non è automatico) sono proprio le fabbriche la principale garanzia per il debito pubblico, per la sua sostenibil­ità. Forse è venuto il tempo di prendere decisioni. Non prenderle, equivale a perdere.

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