INDUSTRIA, EUROPA DISTRATTA
Vincoli sempre più stringenti senza tener conto che il settore manifatturiero genera lavoro e ricchezza
C’è un fantasma che si aggira per l’europa. Fatto di brevetti, fatto di acciaio, di lavoro, di innovazione. Di crescita, formazione. Di possibilità, insomma. Ha fatto la storia del Novecento, causando anche molti danni, naturalmente. Eppure, a sentire i dibattiti, l’industria sembra diventata solo un’ombra scomoda. Ogni tanto qualche leader politico visita una fabbrica, la inaugura ma quando poi si tratta di ascoltare le ragioni della manifattura, le urgenze per renderla competitiva, tutto diventa più sfumato. C’è grande distrazione. Partiamo da un numero: trent’anni fa la Cina rappresentava solo il 4 per cento della manifattura mondiale, adesso ha raggiunto oltre il 30%. Va veloce il mercato e forse ragionare velocemente sui passaggi graduali necessari aiuterebbe a preservare leadership.
Le attività industriali trasformano il territorio, ma anche le comunità. E non è necessario scomodare il mito dell’olivetti per pensare che la via italiana all’industria spesso è vicina ai territori, si pensi alla storia della Tenaris Dalmine o di Marzotto. Un Paese con poche risorse e senza quasi materie prime, con pochissima energia, ma ricco di capitale umano, ha realizzato un’industria in molti settori leader nel mondo. La manifattura, da sola, vale circa 1.200 miliardi, di questi ben 670 vengono esportati praticamente ovunque, dagli Usa all’australia. Numeri che però non si possono dare più per scontati. La corsa della Cina, a partire dal suo debutto nel World trade organization, nell’economia degli scambi internazionali, ha trasformato per sempre lo scenario competitivo. E allora bisogna chiedersi perché tra i primi dieci gruppi al mondo, non ce ne sia nessuno europeo. E quali sono le condizioni perché questo possa avvenire. Chi si illude che il turismo possa essere in grado di generare da solo ricchezza, vive in una specie luna park proiettato al passato. Si dice spesso che l’europa è il più grande mercato dei consumatori del mondo. Può davvero bastare? La forza di un’area economica e politica è nella produzione, non nel consumo. Chimica, siderurgia, trasporti, alimentare. Industria di base, che è cambiamento continuo. Eppure, nel tempo recente, il più ricco mercato del mondo, pur beneficiando per 8 anni di tassi a zero e costi dell’energia relativamente bassi ha avuto un tasso di sviluppo più basso degli Stati Uniti. Com’è possibile? È stato così, probabilmente perché una visione Eurocentrica del mondo ha fatto perdere di vista il resto degli scenari. In qualche modo l’industria è stata considerata il problema, se pensiamo ad esempio alla visione millenaristica della transizione ecologica. Eppure la soluzione (o le soluzioni) non possono che passare proprio dalle fabbriche, dai cantieri, dai centri di ricerca, dai centri di formazione. Si pensi solo all’acciaio, all’agonia dell’ilva. L’italia potrebbe diventare il primo Paese al mondo per la produzione di acciaio green, gli industriali ne sono consapevoli, la politica molto meno.
Passiamo all’unione Europea: sono straordinari i risultati raggiunti dall’europa come spazio di sicurezza comune, moneta comune, allargamento fino a 27 Paesi. E adesso? La Ue sembra spaesata. Il Green deal e le scelte per riconfigurare in chiave sostenibile l’economia sono sicuramente necessari e decisivi, energia pulita, riciclo e riuso hanno già trasformato l’economia. A livello europeo preoccupa molto anche la scadenza del 2035 per lo stop ai motori a combustione, che peserà nella competizione. E bisogna tener conto della visione egemonica della Cina che da sola produce il 90% dei pannelli fotovoltaici, il 60% della tecnologia eolica, il 75% delle batterie. Immaginare che l’industria possa riconfigurarsi premendo un bottone o spingendo un interruttore si sta rivelando una visione miope e molto rischiosa. Serve tempo per riconfigurare un sistema industriale. E intorno a questo tempo l’europa che uscirà dal voto di giugno dovrà trovare una forma di dialogo con le imprese. Il paradosso del fantasma non può resistere a lungo. Un esempio: i diritti negoziabili per la CO2, nati per i settori industriali che hanno più difficoltà a ridurre il loro impatto sul Pianeta, sono diventati un mercato finanziario, dove i primi dieci attori non sono le industrie ma i soggetti finanziari. Qualcosa evidentemente non ha funzionato bene. E per il nostro Paese, la seconda manifattura in Europa (primato che va conservato ma non è automatico) sono proprio le fabbriche la principale garanzia per il debito pubblico, per la sua sostenibilità. Forse è venuto il tempo di prendere decisioni. Non prenderle, equivale a perdere.