«Libertà sotto attacco. Ancora»
«In Italia, Usa, India»: al Salone l’allarme di Rushdie e di Saviano «Il potere non accetta critiche e gli intellettuali si autocensurano»
TORINO «Sì, è un brutto momento per la libertà d’espressione. Pensavo che fossero guerre già vinte e invece dobbiamo ripartire da capo, ricominciare a combattere». Alla fine si arriva di nuovo lì: Salman Rushdie risponde così alla domanda che Roberto Saviano ha lasciato per ultima, nel blindatissimo incontro di ieri sera al Salone di Torino, con i due scrittori circondati da sei guardie del corpo, in un Auditorium dove si contavano parecchi posti rimasi vuoti, probabilmente per i tempi lunghi delle misure di sicurezza (i ritardatari non sono stati fatti entrare). Saviano ringrazia Rushdie per le parole di solidarietà che giovedì, in conferenza stampa, gli ha riservato a commento della querela della premier Giorgia Meloni («Le consiglierei di essere meno infantile, di crescere», aveva dichiarato). Poi la domanda su che cosa pensa della situazione della libertà di espressione, soprattutto nei Paesi guidati da governi populisti. «Tu Salman appartieni — ha detto — a una generazione in cui gli scrittori potevadisse no, in democrazia, criticare anche in maniera dura governi e ministri. E questi non consideravano il loro ruolo pari a quello dell’intellettuale che li criticava. Oggi tutto è mutato nella sintassi della politica. In Italia il primo ministro può permettersi di fare una campagna elettorale mettendo come bersagli i volti di giornalisti e scrittori che considera rivali, nemici, anche se lo fa in forma di ironia, di satira». Rushdie risponde evocando Donald Trump: «Durante la sua presidenza l’espressione che usava per descrivere i giornalisti era “nemici del popolo” ed è bizzarro che il più capitalista dei presidenti americani dovesse ricorrere a una definizione stalinista». I giornalisti, gli scrittori, sono sott’attacco, ha poi concordato Rushdie: «Però ti dico una cosa. Niente di nuovo. Non sei il primo. Nel mio libro I figli della mezzanotte c’era un ritratto non proprio favorevole della prima ministra Indira Gandhi e lei mi citò in giudizio. Avevo scritto una frase su come suo figlio la considerava, cose di dominio pubblico, già pubblicate sui giornali. Però loro non sono mai stati citati: ha deciso di citare me, dopo il successo del libro. La legge sulla diffamazione è molto tecnica e ricordo che l’avvocato della casa editrice mi che l’unica linea di difesa possibile era dimostrare che la persona che si sentiva diffamata non era una brava persona. La cosa si è risolta nel modo peggiore possibile: lei è stata assassinata mentre il procedimento era in corso». Saviano va oltre, chiede a Rushdie come vede la possibilità di continuare a scrivere senza subire pressioni costanti che portano anche molti intellettuali all’autocensura perché sanno «che lavoreranno meno, che toglieranno loro territorio, spazio. E quindi iniziano a non difenderti, per paura». Rushdie risponde tornando in India, quella di oggi, dove, dice, «sta succedendo questo: il governo persegue chi lo critica, anche abbastanza duramente. Hai ragione, la gente ha paura e non parla più».
Alla libertà di espressione, che è il cuore della vita e dell’opera di Rushdie, Saviano è arrivato partendo da Coltello. Meditazioni dopo un tentato assassinio (Mondadori), «un capolavoro, un libro meraviglioso per chiunque vo
glia comprendere la ricerca di uno scrittore braccato che riesce a salvarsi con la forza della sua scrittura». Rushdie racconta che cosa è successo in quei mesi dopo il 12 agosto 2022, quando è stato accoltellato «su un palco come questo, davanti a un publico come voi», aggiungendo, con quel guizzo di ironia che continuamente balena tra le sue parole: «Ma voi non mi sembrate cattivi». Saviano legge qualche pagina, Rushdie ricostruisce quei lunghi secondi che passano tra il momento in cui l’assalitore si alza dal pubblico, si mette a correre, lo colpisce con quello che lui crede un pugno in faccia e invece è una coltellata, e cade a terra sopra di lui («non so come dire ma era una situazione abbastanza erotica», scherza).
Saviano restituisce al pubblico il dolore che c’è nel racconto, ma anche l’amore, prima di tutto con la moglie, la poetessa Rachel Eliza Griffith, seduta in prima fila a cui, suggerisce Saviano, «forse devi a tua immortalità». Ci sono i vent’anni di vita buona prima dell’attacco, quando Rushdie decide di vivere libero in barba alla fatwa: «E ne voglio altri venti», dice.
Gli applausi interrompono spesso la conversazione, che si chiude con un abbraccio e il pubblico tutto in piedi. Prima però Saviano ha voluto ribadire che Coltello «è un libro speciale, un seme che è stato piantato nel mio petto. Cerco di trovare la via di uscita dal labirinto della mia esistenza anche grazie a quello che tu scrivi». Poi ricorda il loro primo incontro all’accademia di Svezia, quando Rushdie gli disse: «Più vivi, più ti daranno la colpa di non essere morto». «Questo libro — dice Saviano — racconta come avere la forza di inventarsi la vita. Più volte Salman scrive: vivi, vivi, vivi, come un ordine che da a sé stesso. Pensavo che chi soffre tanto non diventa migliore ma qui c’è una risposta diversa, pare che tu davvero abbia trovato quella che definisci una felicità ferita».
«Spero tu abbia ragione, te lo farò sapere. Ora — risponde Rushdie — non ne sono sicuro. Devo aspettare come sarà il prossimo libro che scrivo. Tu hai avuto una vita dura quanto la mia e guardati: sei lì, sorridi, stai bene, vivi la tua vita giorno dopo giorno. Diciamo che abbiamo questo strano credo in comune. L’unica cosa che ci manca è la lingua: o tu impari l’inglese o io imparo l’italiano».