Rubini porta a teatro dr. Jekyll e mr. Hyde «Crimini e sorprese»
Il regista debutta il 14 maggio al Bellini di Napoli
ROMA Dopo aver firmato la regia teatrale di Dracula da Bram Stoker, Sergio Rubini dirige Il caso Jekyll dal romanzo di Robert Louis Stevenson. Lo spettacolo è in scena dal 14 maggio al Teatro Bellini di Napoli, con Daniele Russo nel doppio ruolo di Henry Jekyll ed Edward Hyde, mentre Rubini è nei ruoli del Narratore e del dottor Hastie Lanyon. Tra gli altri, Geno Diana (John Gabriel Utterson), Roberto Salem (Poole), Alessia Santalucia (Lenore).
Dopo la storia del vampiro, ora quella dell’alter ego del malvagio Hyde. Cosa la affascina in questi racconti?
«Il tema del doppio, che è presente in entrambi e che prelude all’arrivo della psicoanalisi — risponde Rubini —. Ho scelto anche di impersonare il Narratore, perché mi dà la possibilità di restare più aderente al romanzo. Sia l’opera di Stoker, sia quella di Stevenson sono dell’800, quindi legate allo spiritismo, allo sciamanesimo, al mesmerismo... tutti “ismi” che nel Novecento Freud spazza via con L’interpretazione dei sogni, dando luogo a un cambiamento epocale. All’origine dei disturbi, della malattia mentale, vi è il conflitto tra l’io e la sua parte oscura, la sua Ombra, l’inconscio. Nel nostro adattamento drammaturgico, una crime story con un finale a sorpresa, puntiamo sullo sdoppiamento schizoide... un problema attuale».
Lei si è mai sdraiato sul lettino di uno psicoanalista?
«Da oltre 25 anni vado a chiacchierare con un signore, forse con scarsi risultati, però conosco bene l’argomento».
Del romanzo di Stevenson sono state realizzate un’infinità di trasposizioni cinematografiche, poi televisive e teatrali. Dal celebre film diretto da Victor Fleming, alla miniserie interpretata da Giorgio Albertazzi e la versione teatrale di Carmelo Bene. Quale le è rimasta più impressa?
«Non posso dimenticare quella di Albertazzi: il suo espediente di usare le lenti a contatto bianche, quando incarnava Hyde, era eccezionale. Quando la vidi in tv ero un bambino, mi spaventò molto e la notte non mi faceva dormire. Poi, ovviamente non posso non ricordare Spencer Tracy nel film del 1941. Non mi è capitato di vedere la versione di Carmelo».
Nonostante i numerosi impegni cinematografici e televisivi (ora firma, per la prima volta, la regia di una miniserie su Giacomo Leopardi), il teatro ha nella sua carriera un ruolo centrale e ricorrente.
«La mia è una formazione teatrale, ho frequentato anche l’accademia d’arte drammatica Silvio d’amico. Ma curiosamente, quando pensavo di fare soltanto l’attore di teatro, ho iniziato col cinema, debuttando sul grande schermo a 21 anni. Tuttavia non ho mai abbandonato il mio primo amore, pur ritornando poi in palcoscenico con uno spirito diverso, un approccio meno realistico rispetto ai miei esordi. Amo un teatro che sia più evocativo, senza costrizioni celebrative, mi piace immaginare il palcoscenico come un luogo di ricerca, che si apre al mondo».
E in palcoscenico, il 12 settembre al Malibran, per la Fenice di Venezia, poi all’auditorium Parco della Musica di Roma, darà voce e presenza scenica a un altro grande personaggio, Dmitrij Shostakovic, protagonista del testo «Gli occhiali di Shostakovic» di Valerio Cappelli. Qual è il suo rapporto con il compositore russo?
«Conoscevo la sua musica, ma per interpretare il monologo mi sono reso conto che non conoscevo per niente la sua storia di vita, quella di un artista affascinante, ma purtroppo obbligato a essere legato al potere. L’arte è sempre contro il potere perché, se va a braccetto con chi comanda politicamente, diventa automaticamente propaganda. A un artista che non ha talento questo legame può far comodo, per farsi strada, ma se ha talento, come lo aveva Dmitrij, non ne ha bisogno. Il guaio è che lui si trovava in un regime assoluto e, per sopravvivere, dovette scendere a compromessi e accettare di essere al soldo del potere. Sono rimasto affascinato e ho compreso la profondità della sua tragica storia».