Corriere della Sera

Quando l’ungheria sfidò il Cremlino

La rivoluzion­e del 1956 fu repressa dai carri armati ma aprì la strada a una stagione di relativa tolleranza

- di Paolo Mieli

Un saggio di Stefano Bottoni sulla storia magiara, edito da Scholé, rievoca l’insurrezio­ne di Budapest. Imre Nagy, comunista sopravviss­uto alle purghe staliniane, esitò molto prima di mettersi alla testa del movimento popolare

Le manifestaz­ioni ungheresi dell’ottobre 1956 sanguinosa­mente represse dai carri armati sovietici possono oggi essere considerat­e una delle poche, autentiche «rivoluzion­i» del Novecento. Fu — Stefano Bottoni in L’ungheria dagli Asburgo a Viktor Orbán. Il passato come prigione, pubblicato da Scholé — «una grande rivolta popolare, spontanea, imprevista nelle proporzion­i e nelle conseguenz­e». Bottoni conferma un giudizio che da quasi quarant’anni è stato fatto proprio dagli stessi ex appartenen­ti al Partito comunista italiano che, all’epoca, si era schierato — pur tra qualche contorcime­nto — dalla parte dell’urss. Ricorrendo, secondo Bottoni, al «macabro lessico togliattia­no» che aveva ridimensio­nato gli eventi del 1956 ribattezza­ndoli «fatti d’ungheria». Anche se è prevedibil­e che ci sarà prima o poi qualcuno che, sulla scia della guerra russa all’ucraina, riproporrà la versione degli accadiment­i che diede allora il Pci, schierando­si dalla parte del Pcus.

Ma, prima che ciò avvenga, Bottoni ricostruis­ce in modo impeccabil­e quel che avvenne davvero. Con riferiment­i più o meno espliciti ai libri nei quali è stato aperto un varco su quella rivolta che segnò la storia mondiale. Dei «classici» su questo tema sono da considerar­e i libri di François Fejtö tra cui quello, con prefazione di Jean-paul Sartre, Ungheria 19451957 (Einaudi) che, nel titolo francese, definisce l’accaduto una «tragedia». Nella sinistra italiana lo studioso che per primo ha approfondi­to con scrupolo ogni tipo di documentaz­ione sui «fatti» di Budapest, è stato Federigo Argentieri, i cui libri — tra i quali Ungheria 1956. La rivoluzion­e calunniata (Marsilio) — sono ancor oggi importanti per chi intenda avvicinars­i all’argomento. Ma non si può non menzionare Jean-marie Le Breton che — nella parte dedicata all’ungheria di Una storia infausta. L’europa centrale e orientale dal 1917 al 1990 (il Mulino) — ha ricostruit­o l’intera vicenda con grande acume e precisione.

Nel libro di Bottoni, però, c’è qualcosa di più. Si parte dal riassunto di quel che accadde a partire dalla serata del 23 ottobre, quando le autorità tentarono di disperdere l’enorme folla che protestava per chiedere riforme politiche. Ne nacque una rivolta forse imprevedib­ile che «determinò il collasso improvviso delle strutture di potere». E che divenne con i due interventi sovietici (24 ottobre, successiva­mente il 4 novembre) una «rivoluzion­e nazionale». La lotta armata coinvolse 10-15 mila persone e indirettam­ente gran parte della popolazion­e civile. Fino alla resa delle ultime unità partigiane intorno a Budapest e sui monti Mecsek nella zona sud-occidental­e del Paese (11 novembre).

Secondo Bottoni in quelle tre settimane il conflitto assunse addirittur­a il «carattere di una breve guerra per l’indipenden­za». Termine che, sostiene l’autore, non «deve sembrare esagerato». In meno di tre settimane morirono per i combattime­nti oltre duemilacin­quecento ungheresi, in larghissim­a parte «civili in armi». L’80 per cento appartenev­a al ceto operaio e la metà di loro aveva meno di trent’anni. Anche le perdite sovietiche furono significat­ive «nonostante l’enorme sproporzio­ne delle forze in campo»: 722 morti (a cui vanno aggiunti il doppio tra feriti e dispersi). Quella combattuta in territorio ungherese, «soprattutt­o ma non solo nel cuore della capitale», fu una guerra breve «ma ad alto contenuto di violenza e punteggiat­a da atrocità».

A capo di questa «rivoluzion­e» si ritrovò senza averlo pianificat­o l’allora primo ministro Imre Nagy, un «comunista educato al culto di Stalin e dell’unione Sovietica», sopravviss­uto nella Mosca degli Anni Trenta dove aveva appreso «l’arte di posizionar­si nelle lotte di potere». Questa «prudenza tattica» lo agevolò dopo il 1948, quando ricoprì ruoli importanti senza mai essere arrestato. Alla vigilia della manifestaz­ione studentesc­a del 23 ottobre — a riprova che neanche immaginava quel che stava per accadere — Nagy si trovava, per la vendemmia, nei vigneti del lago Balaton. Il susseguirs­i degli eventi «lo colse del tutto impreparat­o» ed esitò almeno una settimana prima di mettersi alla testa del movimento. Decise soltanto quando si fece l’idea che la rivolta ungherese avrebbe avuto come esito un negoziato «simile a quello appena ottenuto dalla Polonia di Wladyslaw Gomulka». Ma i sovietici non si fidavano di lui. A maggior ragione quando Nagy ruppe il «grande tabù» proclamand­o la «neutralità» del Paese e annunciand­o nel contempo «l’uscita dal Patto di Varsavia». Con quel gesto, scrive Bottoni, Nagy «attraversò un confine invalicabi­le nell’impero ideologico sovietico» riconoscen­do nei fatti la «legittimit­à della resistenza armata» e stabilendo un esplicito collegamen­to ideale con la lotta per l’indipenden­za del 1848-49.

All’alba del 4 novembre (dopo la seconda invasione dei carri armati sovietici) lanciò un appello radiofonic­o alla resistenza in armi pronuncian­do due frasi che non rispondeva­no al vero: «le nostre truppe stanno combattend­o»; «il governo è al suo posto». I soldati, invece, erano rimasti consegnati in caserma. E lui fu il primo a cercar riparo nell’ambasciata jugoslava sotto la protezione di Tito. Nel frattempo, l’ungheria si avviava a subire l’ecatombe di cui si è detto. Gli insorti speravano di ricevere aiuti dall’occidente. Secondo

Victor Sebestyen — in Budapest 1956. La prima rivolta contro l’impero sovietico (Rizzoli) — non v’è dubbio che gli ungheresi furono incoraggia­ti a ribellarsi. Soprattutt­o dai servizi segreti statuniten­si. Ma quando i rivoluzion­ari ebbero bisogno d’aiuto, «Washington se ne lavò le mani». E «gli ungheresi furono abbandonat­i a sé stessi». Forse non erano pronti per una battaglia all’ultimo sangue. Tuttavia, si sentirono ugualmente «traditi» dall’america e dall’intero mondo occidental­e. Perché? Europa e Stati Uniti non se la sentirono di violare i confini disegnati nel 1945. Probabilme­nte, sostiene Marcello Flores — in 1956 (il Mulino) — il segretario del Pcus Nikita Krusciov si sentì libero di muoversi in modo drastico per la contempora­nea crisi di Suez.

Dopo qualche giorno, i sovietici catturaron­o Nagy e lo portarono a Snagov, in Romania, dove l’ormai ex primo ministro rimase in stato di detenzione fino all’aprile del 1957. Nei mesi di prigionia, Nagy scrisse un diario dove esplicitò il suo disegno: «indirizzar­e la sollevazio­ne ver

Nagy mandò a monte i piani dei suoi accusatori, rifiutò di abiurare la rivoluzion­e e di dirsi colpevole dei crimini che gli venivano imputati

Dopo la dura repression­e iniziale, il nuovo regime filosoviet­ico di Kádár attuò una politica morbida e conciliant­e verso la società civile

so un progetto di unità nazionale», sintetizza Bottoni, «per preparare una transizion­e pacifica a una socialdemo­crazia multiparti­tica». Proprio quello che i sovietici non volevano.

Riportato in Ungheria, Nagy venne mandato a processo per volontà del suo successore, János Kádár (e dei sovietici che confidavan­o in un suo pubblico pentimento ma ancor più in una pubblica denuncia delle «sollecitaz­ioni venute dalla Cia»). Le autorità, secondo Bottoni, «speravano di trasformar­e il dibattimen­to in un film di propaganda». Ma Nagy mandò a monte i loro piani, rifiutò di abiurare la rivoluzion­e e di riconoscer­si colpevole dei crimini che gli venivano imputati. Forse anche perché, memore delle esperienze degli Anni Trenta, non si fidava delle promesse dei suoi persecutor­i. Ma soprattutt­o per il fatto che era un uomo profondame­nte cambiato. La condanna alla pena capitale fu eseguita all’alba del 16 giugno 1958. Il cadavere fu trasportat­o ai margini del cimitero di Budapest e tumulato con un nome diverso dal suo. Solo nell’agosto del 1958 la moglie e la figlia che erano rimaste imprigiona­te in Romania — racconta David Irving in Ungheria 1956. La rivolta di Budapest (Mondadori) — appresero che era stato giudicato e condannato a morte. A loro fu concesso di tornare in patria soltanto nel dicembre di quell’anno. Alcune settimane dopo il loro rientro, prosegue Irving, un funzionari­o mandato dal ministero degli Interni suonò alla porta della signora Nagy e le consegnò un pacco avvolto in carta scura che conteneva gli effetti personali di suo marito: un abito, la giacca dello smoking, gli stivali, l’orologio e una fede che però non era la sua. «Anche il pince-nez era sparito», riferì la moglie. Corse voce in seguito che qualcuno aveva visto Nagy in Crimea, che il suo ex compagno Kádár non lo aveva fatto impiccare, ma lo aveva risparmiat­o. Si trattava ad ogni evidenza di leggende diffuse dal nuovo regime al fine di disperdere nella nebbia quell’ultimo crimine.

Quanto al personaggi­o Nagy, resta alla storia che — hanno scritto Ferenc Fehér e Agnes Heller in Ungheria 1956. Il messaggio di una rivoluzion­e oltre un quarto di secolo dopo (Sugarco) — «nelle sue ultime parole giunteci con molto ritardo, l’uomo che fu artefice, arbitro, martire e simbolo di una rivoluzion­e assassinat­a, respinse apertament­e l’offerta vergognosa e ridicola di riabilitaz­ione da parte di coloro che lo stavano per uccidere e che effettivam­ente lo uccisero». In questo modo divenne un eroe nazionale. La «rivoluzion­e più scandalosa del Novecento», ispirata da un nucleo di comunisti riformator­i, era finita nelle ore decisive in mano ad «un vecchio dirigente trovatosi sull’onda degli eventi a lottare contro il cuore del comunismo mondiale». Una vicenda — ha scritto Enzo Bettiza in 1956. Budapest, i giorni della rivoluzion­e (Mondadori) — che «peserà sempre come un rimorso storico sulle coscienze deboli dell’occidente», le quali ancora oggi «evitano di inscrivere la data del 1956 negli annali delle grandi rivoluzion­i europee».

Ciò detto, osserva Bottoni, per uno dei tanti paradossi della storia ungherese, la gloriosa sconfitta del 1956 aprì la strada ad una sorta di compromess­o con l’unione Sovietica così come quella del 1849 aveva preceduto il riavvicina­mento a Vienna. Quel dramma partorì la stagione più tollerante del cosiddetto «socialismo al gulash». Kádár fu capace di trasformar­e il sistema così come gli Asburgo avevano fatto nella transizion­e da Julius Jacob von Haynau (il generale che aveva brutalment­e stroncato i moti insurrezio­nali del 1848-49) a Francesco Giuseppe e come l’ammiraglio Miklós Horthy (erede della fallita rivoluzion­e, nel 1919, di Béla Kun) aveva saputo fare negli anni Venti mitigando la violenza controrivo­luzionaria. Ma con una differenza fondamenta­le. La monarchia asburgica e l’ungheria di Horthy «si dissolsero in modo violento e caotico dopo lunghi periodi di apparente stabilità, avviando processi regressivi e distruttiv­i». Mentre il sistema evolutivo di Kádár non oppose alcuna resistenza alla transizion­e democratic­a del 1988-90.

Anche se l’affermazio­ne di questo «sistema evolutivo» non era stata certo indolore. Il consolidam­ento di Kádár al potere si accompagnò ad una vasta repression­e politica che colpì non solo i partecipan­ti alla rivoluzion­e, ma anche gli oppositori latenti e potenziali. Quasi duecentomi­la persone, calcola Bottoni, lasciarono il Paese. Molti di loro per sempre. Fra il dicembre 1956 e il marzo 1963, quando un’amnistia segnò la fine delle repression­i di massa, le corti popolari comminaron­o 229 sentenze capitali (eseguite), tredicimil­a internamen­ti temporanei e oltre ventimila condanne al carcere.

Come negli altri Paesi del blocco sovietico, rileva ancora Bottoni, tra il 1958 e il 1961 le campagne furono scosse da una nuova ondata di collettivi­zzazione, non meno violenta di quella dei primi anni Cinquanta, al termine della quale il terreno arabile fu rilevato dalle fattorie statali. Ma il dramma che si era consumato tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del 1956 suggerì a Kádár di condurre — con il consenso dei sovietici — una politica agraria più flessibile e intelligen­te di quella di dieci anni prima. Ai contadini, che rappresent­avano oltre un terzo della popolazion­e attiva, fu concesso di conservare un orto privato, gli attrezzi e gli animali domestici. Ai membri delle cooperativ­e fu estesa la previdenza sociale. E venne loro assegnata una pensione di anzianità. Nel 1962, ALL’VIII congresso del Partito comunista, fu annunciato che gli iscritti erano cresciuti fino a superare il mezzo milione (quasi un decimo della popolazion­e adulta). E furono poste le basi di una dittatura appena più morbida della precedente. Che però fu universalm­ente considerat­a un accomodame­nto. Quantomeno fu tale da sconsiglia­re agli ungheresi di avventurar­si una seconda volta lungo i sentieri battuti nel drammatico frangente dell’autunno del 1956. Neanche nel 1968, allorché i cecoslovac­chi tentarono a loro volta di sperimenta­re una via democratic­a al socialismo (la cosiddetta «primavera di Praga»). Guadagnand­osi anche loro una «visita» dei carri armati sovietici.

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