TUTTI SULLO STESSO PIANO
COSTANZA PRINCIPE: «CON BEETHOVEN E I CONIUGI SCHUMANN PER FAR CAPIRE CHE LA MUSICA È DEMOCRATICA»
Aveva già suonato a Piano City, come giovane promessa degli ottantotto tasti, e, da milanese, ha seguito da spettatrice non pochi appuntamenti durante le passate edizioni. Però stavolta sarà proprio lei tra i protagonisti dell’inaugurazione, con un recital dedicato a Beethoven e ai coniugi Schumann, Robert e Clara Wieck.
Costanza Principe, se le dicono Piano City lei pensa a…?
«Ai luoghi dove ho suonato, innanzitutto: le Vigne di Leonardo o il Castello Sforzesco, solo per citarne un paio. E all’atmosfera che si respira, in generale e nel particolare più minuto. Già il fatto che l’intera città sia invasa in ogni dove da decine di pianisti e pianoforti è qualcosa d’eccezionale, è un momento in cui la musica si impone come fattore sociale, come festa dell’arte. Poi, il rapporto che si instaura tra chi suona e chi ascolta: non c’è la distanza palco-platea, luoghi “altri” mettono tutti sullo stesso piano e spingono l’esecutore a non sentirsi superiore, a pensare: “Dall’alto della mia sapienza sbocconcello qualcosa a chi normalmente non frequenta teatri o sale de concerto”; no, quando ci si trova circondati da tanta gente che sì, magari non conosce opere e autori, ma segue partecipe, silenziosa e concentrata, ci si rende conto che l’unica cosa che conta è: “La musica comunica bellezza, emozioni? Sa prendere, appassionare?” Tutto il resto è un di più».
Lei suona spesso le opere di Clara Schumann; perché?
«Innanzitutto, perché Robert Schumann è forse l’autore che più ho studiato e portato in concerto; è stato inevitabile allargare lo sguardo alla produzione di sua moglie: è stato davvero interessante scoprire i continui scambi di melodie: ora è Clara a riprenderne una di Robert, ora è lui a “sfruttare” un tema della moglie per delle Variazioni. Talvolta la loro scrittura è affine non solo a livello melodico, ma anche timbrico, armonico, seppure la struttura, l’articolazione formale, sia più lineare, meno elaborata in Clara. Lo si vede bene nei Valses romantiques, una serie di valzer collegati in modo semplice, si sente chiaramente quando si passa da uno a quello successivo. Anche Papillons di Schumann sono una serie di danze».
E poi c’è l’ultima delle trentadue Sonate di Beethoven.
«L’ho portata all’esame di diploma in Conservatorio. Avevo diciassette anni, ricordo ancora quello che mi spiegava a riguardo il maestro Balzani. Ora che ne ho trentuno penso di aver approfondito la mia riflessione, ma non ho affatto esaurito le domande che quest’opera suscita: un primo movimento impetuoso, ricco di contrasti, un secondo ampio e disteso, ma che nel finale recupera il dramma iniziale e porta a una sintesi sublime: anche se in due soli tempi, di contro ai canonici tre o quattro, la concezione dell’opera 111 è perfettamente completa e conchiusa».
Diplomata in Conservatorio a diciassette anni: è stata un enfant prodige?
«No, ho iniziato a suonare a sei anni, tanti bambini iniziano prima. Entrambi i miei genitori sono pianisti (e il nonno è Quirino Principe, musicologo tra i più noti degli ultimi decenni, ndr.), l’avvio è stato talmente naturale da risultarmi quasi incosciente: fino ai quindici anni non mi sono mai davvero domandata se mi piacesse suonare; lo facevo come si fa qualcosa di inevitabile e automatico».
E a quindici anni?
«Arriva il momento in cui si mette in discussione la famiglia, e per me ha significato anche mettere in discussione la musica. Ho iniziato a domandarmi se volessi continuare. Per un anno ho suonato poco, concentrandomi più sul liceo classico; però, dopo quell’anno, ho capito che il pianoforte mi piaceva e infatti dai sedici iniziai a studiare veramente. E dopo la maturità, tra medicina e dedicarmi totalmente alla musica, scelsi la seconda. Un amico, mentre bevevamo un caffè, mi parlò dell’esame di ammissione alla Royal Academy di Londra. Ci provai quasi per sfizio e mi ammisero, con anche una borsa di studio. Sei anni a Londra, poi l’accademia di S. Cecilia con Benedetto Lupo».
Sogni?
«Sono scaramantica, non li faccio né li dico. Però… suonare i Concerti di Brahms…».
Qui non c’è la distanza palco-platea e gli artisti non suonano dall’alto della loro sapienza
A 15 anni ho messo in discussione la musica come si fa con la famiglia. Poi l’ho scelta per la via