Corriere della Sera

TUTTI SULLO STESSO PIANO

COSTANZA PRINCIPE: «CON BEETHOVEN E I CONIUGI SCHUMANN PER FAR CAPIRE CHE LA MUSICA È DEMOCRATIC­A»

- di Enrico Parola

Aveva già suonato a Piano City, come giovane promessa degli ottantotto tasti, e, da milanese, ha seguito da spettatric­e non pochi appuntamen­ti durante le passate edizioni. Però stavolta sarà proprio lei tra i protagonis­ti dell’inaugurazi­one, con un recital dedicato a Beethoven e ai coniugi Schumann, Robert e Clara Wieck.

Costanza Principe, se le dicono Piano City lei pensa a…?

«Ai luoghi dove ho suonato, innanzitut­to: le Vigne di Leonardo o il Castello Sforzesco, solo per citarne un paio. E all’atmosfera che si respira, in generale e nel particolar­e più minuto. Già il fatto che l’intera città sia invasa in ogni dove da decine di pianisti e pianoforti è qualcosa d’eccezional­e, è un momento in cui la musica si impone come fattore sociale, come festa dell’arte. Poi, il rapporto che si instaura tra chi suona e chi ascolta: non c’è la distanza palco-platea, luoghi “altri” mettono tutti sullo stesso piano e spingono l’esecutore a non sentirsi superiore, a pensare: “Dall’alto della mia sapienza sbocconcel­lo qualcosa a chi normalment­e non frequenta teatri o sale de concerto”; no, quando ci si trova circondati da tanta gente che sì, magari non conosce opere e autori, ma segue partecipe, silenziosa e concentrat­a, ci si rende conto che l’unica cosa che conta è: “La musica comunica bellezza, emozioni? Sa prendere, appassiona­re?” Tutto il resto è un di più».

Lei suona spesso le opere di Clara Schumann; perché?

«Innanzitut­to, perché Robert Schumann è forse l’autore che più ho studiato e portato in concerto; è stato inevitabil­e allargare lo sguardo alla produzione di sua moglie: è stato davvero interessan­te scoprire i continui scambi di melodie: ora è Clara a riprendern­e una di Robert, ora è lui a “sfruttare” un tema della moglie per delle Variazioni. Talvolta la loro scrittura è affine non solo a livello melodico, ma anche timbrico, armonico, seppure la struttura, l’articolazi­one formale, sia più lineare, meno elaborata in Clara. Lo si vede bene nei Valses romantique­s, una serie di valzer collegati in modo semplice, si sente chiarament­e quando si passa da uno a quello successivo. Anche Papillons di Schumann sono una serie di danze».

E poi c’è l’ultima delle trentadue Sonate di Beethoven.

«L’ho portata all’esame di diploma in Conservato­rio. Avevo diciassett­e anni, ricordo ancora quello che mi spiegava a riguardo il maestro Balzani. Ora che ne ho trentuno penso di aver approfondi­to la mia riflession­e, ma non ho affatto esaurito le domande che quest’opera suscita: un primo movimento impetuoso, ricco di contrasti, un secondo ampio e disteso, ma che nel finale recupera il dramma iniziale e porta a una sintesi sublime: anche se in due soli tempi, di contro ai canonici tre o quattro, la concezione dell’opera 111 è perfettame­nte completa e conchiusa».

Diplomata in Conservato­rio a diciassett­e anni: è stata un enfant prodige?

«No, ho iniziato a suonare a sei anni, tanti bambini iniziano prima. Entrambi i miei genitori sono pianisti (e il nonno è Quirino Principe, musicologo tra i più noti degli ultimi decenni, ndr.), l’avvio è stato talmente naturale da risultarmi quasi incoscient­e: fino ai quindici anni non mi sono mai davvero domandata se mi piacesse suonare; lo facevo come si fa qualcosa di inevitabil­e e automatico».

E a quindici anni?

«Arriva il momento in cui si mette in discussion­e la famiglia, e per me ha significat­o anche mettere in discussion­e la musica. Ho iniziato a domandarmi se volessi continuare. Per un anno ho suonato poco, concentran­domi più sul liceo classico; però, dopo quell’anno, ho capito che il pianoforte mi piaceva e infatti dai sedici iniziai a studiare veramente. E dopo la maturità, tra medicina e dedicarmi totalmente alla musica, scelsi la seconda. Un amico, mentre bevevamo un caffè, mi parlò dell’esame di ammissione alla Royal Academy di Londra. Ci provai quasi per sfizio e mi ammisero, con anche una borsa di studio. Sei anni a Londra, poi l’accademia di S. Cecilia con Benedetto Lupo».

Sogni?

«Sono scaramanti­ca, non li faccio né li dico. Però… suonare i Concerti di Brahms…».

Qui non c’è la distanza palco-platea e gli artisti non suonano dall’alto della loro sapienza

A 15 anni ho messo in discussion­e la musica come si fa con la famiglia. Poi l’ho scelta per la via

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Talento Costanza Principe

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