«A casa spensero la tv, papà era morto in pista Ho preso la patente all’insaputa di mamma»
Stefano, figlio del grande motociclista Renzo Pasolini «La rivalità tra lui e Agostini? Esisteva soltanto in gara»
Basta guardarlo per dire: è uguale a suo padre. «Però io sono più grosso di lui» replica sorridendo Stefano Renzo Pasolini. Ormai è abituato alla battuta: non può che essere il figlio di Renzo Pasolini, il campione di un motociclismo eroico che il 20 maggio 1973 a Monza incontrò un destino terribile. Al primo giro della gara delle 250 il «curvone» diventò una succursale dell’inferno: otto a terra, fiamme, dramma. Pasolini sbandò per un grippaggio, uscì di pista, la moto rimbalzò sul guard-rail e uccise Jarno Saarinen. Invece «Paso», classe 1938, riminese trapiantato a Varese per esigenze agonistiche e di lavoro, una passione per la boxe (praticata) e un talento da pilota d’attacco, morì poco dopo. Questa è allora la storia di una tragedia con cui hanno dovuto fare i conti una famiglia intera e in particolare un bambino trovatosi a navigare nel mare della vita senza suo papà.
Stefano Renzo, quel giorno era troppo piccolo per capire...
«Ho solo ricordi vaghi. Mi ero accorto che qualcosa era cambiato, ma non avevo nemmeno tre anni. La vicina di casa venne a spegnere la televisione, i giorni successivi sono ancora avvolti nella nebbia. Pian piano dissero a me e a Sabrina che nostro padre era morto».
Quindi sua mamma non era a Monza, giusto?
«Eravamo tutti a casa: Sabrina, mia sorella, era stata operata di appendicite. Avevamo fatto uno scherzo a papà. Lei era uscita il sabato, il giorno prima di quella maledetta gara. Ma a lui avevamo fatto credere che era ancora in ospedale. Si era arrabbiato, però poi Sabrina sbucò e lo abbracciò».
Quanti anni sono passati prima che metabolizzasse la tragedia?
«Una cosa così non la metabolizzi mai: ce l’hai dentro, fai fatica, ti rimane questa figura di cui senti solo parlare. La sua assenza mi ha lasciato un vuoto».
Che cosa ha di suo padre?
«Siamo nati quasi lo stesso giorno, lui il 18 luglio e io il 21: mamma dice che ci assomigliamo nel parlare, nel modo di fare, nella maniera di muovere le mani».
La situazione è simile a quella di Franco Ossola junior, figlio del Franco Ossola caduto a Superga e a sua volta varesino. Ossola addirittura non vide mai il padre: nacque 8 mesi dopo lo schianto dell’aereo del Torino.
«Anch’io non ho avuto modo di conoscere papà. La mamma mi ha raccontato tutto di lui, immagino come abbia fatto la madre di Franco Ossola junior. Tornando a noi, per lei non è stato facile parlare di Renzo: i primi anni dopo la tragedia sono stati duri. Mi ha poi sempre tenuto lontano dalle moto. Papà aveva regalato a me e a Sabrina una motoretta con le rotelline: ad un certo punto sparì. Sono riuscito a fare qualche giretto, finendo pure contro un cancello. Ma un bel giorno non l’ho trovata più».
Ha mai avuto voglia di imitare papà?
«In realtà sì, ma a casa la moto è sempre stata un tabù. Diventare pilota professionista? Non potevo nemmeno parlarne. Se papà fosse rimasto in vita mi avrebbe spinto in quella direzione. Mamma, invece, ha tagliato in modo netto: quando sono diventato maggiorenne la moto la lasciavo da un amico».
Nonostante tutto non ha mai visto le moto come nemiche.
«Mi sono sempre piaciute, ma per guidarle ho dovuto fare la patente di nascosto. Mia mamma non è stata come quella di Jacques Villeneuve, che aiutò il figlio nell’automobilismo nonostante la tragedia del padre Gilles. E lei avrebbe preferito un marito a casa».
Sua sorella è mancata da poco. Com’era il rapporto con lei?
«Siamo andati d’accordo e Sabrina sarà sempre nel mio cuore. L’anno scorso assieme a lei e agli altri della famiglia ero a Monza per il 50° della morte di papà: una giornata indimenticabile».
Invece con sua madre com’è andata?
«Era maestra d’asilo, aveva avuto l’incarico ed è uno dei motivi per cui siamo rimasti a Varese. Lasciava le cose pronte, noi ci arrangiavamo: Sabrina mi preparava da mangiare, poi giocavamo. Spesso chiedevo a mamma come fosse papà: e lei raccontava. Mia madre ci ha dato il 200% di se stessa, però la figura paterna non è sostituibile. Ora che ho una figlia piccola comprendo il sostegno di cui ha bisogno un bambino».
Per Renzo la famiglia era l’angolo sicuro.
«Era il luogo nel quale ritirarsi. Mamma diceva che quando tornava a casa pensava solo a noi».
Il cognome Pasolini lo trova ingombrante o le trasmette tenerezza?
«Soprattutto mi dà orgoglio. Papà è ricordato ancora oggi. Cosa non scontata, visto che ci si dimentica perfino dei campioni del mondo e lui non lo è nemmeno stato». Ma è come se avesse vinto. «Sì, era amato. Però gli pesava non aver conquistato almeno un titolo iridato: l’ultimo lo perse per una caduta».
Quelli erano gli anni dei motociclisti-gladiatori.
«Correvano rischi pazzeschi. Ho partecipato a rievocazioni di gare dell’epoca, un circuito come quello di Ospedaletti era allucinante: se sbagliavi, finivi a muro o sulla gente. E non guadagnavano i soldi dei piloti di oggi, era la passione a motivarli».
Secondo Giacomo Agostini, in Italia era più popolare
Renzo Pasolini.
«Penso sia vero. Nella sua Romagna, soprattutto. La rivalità con Giacomo? Esisteva solo in pista».
«Paso» e «Ago» sono stati definiti il Coppi e il Bartali delle moto. Ma chi era Coppi e chi Bartali?
«Cito una frase di mia mamma Anna Maria: “Renzo poteva avere la tenacia di un Bartali. Ma lo accosto a Coppi se guardo alla morte prematura di entrambi”».
Segue il Motomondiale?
«Soprattutto in tv, è qualche anno che manco dai circuiti. Quando vedo i piloti di oggi usare il ginocchio per aiutarsi nelle curve, ecco, mi viene da dire che papà è stato un precursore: quella tecnica, ora indispensabile, l’aveva introdotta lui».
Saliamo sulla macchina del tempo: che cosa combinerebbe Renzo Pasolini nelle corse di oggi?
«È cambiato tutto, ma figurerebbe bene. Non so se vincerebbe, però chi era forte all’epoca sarebbe tra i migliori anche adesso».
Lei ha provato sia l’aermacchi sia la Benelli, le moto di papà.
«L’aermacchi a due tempi è “cattiva”, la Benelli ha un “sound” magnifico. Bisogna saperle gestire e vanno trattate con rispetto».
Renzo Pasolini era spiritoso: dato che usava gli occhiali, appiccicò sul casco a scodella due grossi occhi, tipo cartoon.
«A casa di mamma c’è il casco bianco verniciato con le sue mani. Usava gli occhiali, le lenti a contatto ancora non esistevano. Per ironizzare aggiunse due occhi: quattr’occhi... più due, sei in tutto. Un modo per dire che vedeva meglio dei rivali».
Lei è pilota di gare di velocità in salita e di moto d’epoca.
«Il lockdown mi ha fermato, dal 2020 non ho ancora ripreso. Non so se ricomincerò: ora ho una bimba piccola e sto vicino alla famiglia. Ma la moto, una MV F3, è pronta».
Ha la «vis» agonistica di papà?
«Non lo so, avrei dovuto iniziare a 20 anni e non a 35. E se ricominciassi dovrei spiegarlo a mia mamma... In compenso ho già messo due o tre volte mia figlia sulle moto del nonno. A Monza, sull’aermacchi, diventava matta, lanciava urletti, baciava e leccava il serbatoio. E se guarda i Gp in tv dice “brumm, brumm”».
Alla MV lei è un amministrativo: non ha pensato al settore tecnico?
«Sarebbero serviti studi adeguati. Mio padre si era agganciato al nonno e a una cultura di famiglia, io ho perso la chance di portare avanti la tradizione. Se papà non fosse morto sarei diventato o buon pilota o un ottimo meccanico. Ma non ho rimpianti».
Sfiorare l’asfalto Quando vedo i piloti di oggi usare il ginocchio per aiutarsi nelle curve, penso a papà: quella tecnica l’aveva inventata lui