La lunga scia delle stragi
Bombe, trame fasciste, depistaggi di Stato: un fardello che pesa sul nostro Paese
«Io so», scrisse allora Pier Paolo Pasolini. «Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe”… Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974...». E giù un interminabile elenco di accuse... «Io so... Io so... Io so...» Fino a sfociare nella drammatica confessione di impotenza: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace...». Quello era il nodo: chi sapeva taceva. Chi sapeva copriva. Chi sapeva deviava.
È passato mezzo secolo, dalla strage di piazza della Loggia del 1974 e da quel memorabile sfogo sul «Corriere» dello scrittore friulano. Mezzo secolo. Eppure la lettura de La ragazza di Gladio e altre storie nere (Fuoriscena), il libro in cui Paolo Biondani, cronista e inviato del «Corriere della Sera» e poi dell’«espresso», ricostruisce decenni di bombe, indagini, omicidi, arresti, confessioni, depistaggi, coincidenze stupefacenti e infami omertà, lascia la bocca amarissima. Ti chiedi: possibile?
Possibile che cinquant’anni dopo sia ancora aperto il cold case di quell’attentato dinamitardo che il 28 maggio 1974 uccise otto persone e ne ferì altre 102, se il 30 maggio prossimo si aprirà finalmente il processo al veronese Marco Toffaloni, che vive da anni in Svizzera col nuovo nome di Franco Maria Muller e all’epoca aveva solo 16 anni (infatti finirà da sessantaseienne davanti al tribunale dei minori!) ed è considerato l’esecutore materiale che mise la bomba nel cestino di rifiuti «in concorso con altre persone tra le quali Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte già giudicati separatamente e condannati all’ergastolo» e con l’ormai cittadino americano Roberto Zorzi, che da quei tempi vive a nord di Seattle da dove sbeffeggia la giustizia italiana con l’allevamento di dobermann battezzato «Littorio»?
Eppure è così. E pagina dopo pagina l’inquietante noir «che racconta solo fatti certi, documentati e comprovati da sentenze inoppugnabili» e segue come filo d’arianna il percorso umano e giudiziario della «ragazza della pizzeria» (senza mai farne il nome perché «custodisce molti segreti del terrorismo neofascista e cinquant’anni dopo ha ancora paura») testimone chiave della mattanza bresciana, ricostruisce decenni di stragi dimostrando definitivamente due cose. La prima: il cocciuto e generoso coraggio di chi ha cercato davvero, magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti «pistaroli» (ironica autodefinizione di Marco Nozza) di scovare colpevoli e mandanti delle troppe stragi da Portella della Ginestra a via dei Georgofili del 1993. La seconda: la sistematica applicazione criminale di chi per decenni ha inquinato nell’ombra (un numero dice tutto: i «servizi» sono citati nel libro 164 volte!) ogni prova, ogni indizio, ogni testimonianza, ogni confessione con un solo obiettivo: avvelenare ogni possibile «verità» processuale. A partire dai profili dei protagonisti.
Ed ecco Silvio Ferrari, il fidanzato fascista della «ragazza di Gladio», annientato nel centro di Brescia la notte del 19 maggio dallo scoppio di una bomba che portava sulla sua Vespa, scoppio seguito da un inquietante volantino («comunichiamo alla popolazione che entro il mese di maggio, gravi attentati saranno posti in azione») che avrebbe dovuto spingere nove giorni dopo a controllare scrupolosamente in piazza della Loggia, e così non fu, quel cestino di rifiuti imbottito forse (forse: la scelta scellerata di lavare il selciato prima delle perizie avrebbe intorbidito tutto) con «una miscela di gelignite, dinamite e tritolo». E il «dottor Maggi», la figura forse più ambigua, omonimo d’un letterato del Seicento, medico condotto all’isola veneziana della Giudecca, più volte definito «dottor Jekyll e mister Hyde», più volte inquisito, assolto e condannato (anche per la strage di Peteano), morto nel suo letto nel 2018 senza aver fatto per motivi sanitari (una neuropatia congenita l’aveva ridotto in carrozzina) un solo giorno di galera per l’eccidio del 1974 deciso, stando agli atti, per «aprire un conflitto interno risolvibile solo con lo scontro armato».
E pagina dopo pagina ecco Federico Umberto D’amato, il funzionario dell’ufficio Affari Riservati custode dei rapporti riservati con la Cia e con la rete di «patrioti» di Gladio, indicato nel 2020 dalla Procura generale di Bologna come uno dei mandanti, organizzatori o finanziatori della strage alla stazione di Bologna
del 1980 coi defunti Umberto Ortolani, Mario Tedeschi e Licio Gelli, dal quale lo stesso «poliziotto e grand gourmet» sotto il nomignolo di «Zafferano» avrebbe ricevuto 850.000 dollari. E Gianadelio Maletti, il dirigente del Sid figlio del generale Pietro (autore nel 1937 in Etiopia della mattanza di monaci abissini a Debra Libanos) condannato per i depistaggi di Piazza Fontana ma rimasto libero, latitante in Sudafrica, dove è morto nel 2021 anni dopo aver detto in un’intervista che la Cia aveva cercato di fare da noi «ciò che aveva fatto in Grecia nel ’67» aiutando il golpe dei colonnelli, ma in Italia purtroppo «le sfuggì di mano la situazione». E la famigerata Rosa dei Venti, sulla quale il rapporto finale «che chiamavano “il malloppone”, fu “sfrondato” per ordini politici superiori: ai giudici fu mandato un “malloppino”, da cui vennero tolti i nomi degli intoccabili, tra cui spicca Licio Gelli...».
E giù giù, di depistaggio in depistaggio (sessanta citazioni, nel libro: sessanta!) dalla bomba alla Questura di Milano lanciata dal sedicente «anarchico» Gianfranco Bertoli, a lungo pagato (nome in codice: Negro) come infiltrato dal Sifar, alla stagione del «terrorismo mafioso» fino a quella che avrebbe potuto essere la più devastante delle stragi, allo stadio Olimpico di Roma ai primi di gennaio del 1994: «Spatuzza e altri pentiti molto credibili raccontano (con tutti i dettagli e i riscontri) di aver lasciato un’auto con più di 120 chili di esplosivo accanto allo stadio Olimpico, davanti a una caserma dei carabinieri». Fallì, grazie a Dio, «per un difetto dell’innesco». E al successivo arresto dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, «ultimi custodi dei segreti delle stragi». Sarebbe stata una carneficina. E ti chiedi, col cuore in gola, a chi sarebbe stata attribuita, stavolta?
Inchieste
A mezzo secolo da piazza della Loggia, sono due le condanne definitive e due i processi in corso
Coperture
Il rapporto sulla «Rosa dei Venti» fu sfrondato di parecchio materiale per ordini superiori