Corriere della Sera

Non erano snob a Bloomsbury

- Di Ernesto Galli della Loggia

Che cosa ancora ci affascina dopo tanti anni della dozzina di personaggi passati alla storia come «il circolo di Bloomsbury» (Leonard e Virginia Woolf, Keynes, Lytton Strachey, Forster, Clive e Vanessa Bell tra gli altri) di cui Mario Fortunato ha composto un ritratto vivido e vibrante, a tratti perfino straziante, in questo suo Il giardino di Bloomsbury che si legge d’un fiato (Bompiani, pagine 217, 20)? Tutti autentici privilegia­ti per nascita, censo ed educazione, tutti supremamen­te anticonfor­misti (anche a letto), tutti una quintessen­za d’intelligen­za e di spirito: ma quelli di Bloomsbury conservano un posto nel nostro immaginari­o per qualcos’altro: per il legame di amicizia tenero e profondo, destinato a durare tutta la vita, che seppero stabilire tra di loro e per quella cosa che sembra lo snobismo, ma non lo è. È la «sprezzatur­a»: il saper dimostrare «che ciò che si fa e dice viene fatto senza fatica, quasi senza pensarvi».

Ecco a che cosa servono i libri di storia; anche un libro disordinat­o come questo di Martin Pollack La donna senza tomba (Keller editore, pagine 188, 17), storia di una famiglia tedesca della Bassa Stiria da Francesco Giuseppe ad Hitler. Servono ad ampliare comunque le nostre conoscenze, a fare confronti, a dare giudizi meno affrettati. Ad esempio riguardo il trattament­o riservato dall’italia alla minoranza slovena dopo il 1918, una minoranza maltrattat­a e repressa specie ad opera del fascismo. Dal libro di Pollack veniamo a sapere, però, che negli stessi anni le autorità slovene della neo costituita Jugoslavia, che dopo la guerra aveva annesso la Bassa Stiria popolata da una forte minoranza tedescofon­a, fecero più o meno le stesse cose che contempora­neamente accadevano qui da noi ai danni dei loro connaziona­li: licenziaro­no tutti i dipendenti pubblici di nazionalit­à tedesca, sciolsero 200 associazio­ni e istituzion­i tedesche confiscand­one i beni, permisero solo insegne commercial­i in sloveno, slavizzaro­no scuole e cognomi tedeschi. E quando nel 1919 i cittadini tedeschi inscenaron­o una protesta, spararono sulla folla. Bilancio: 13 morti e una decina di feriti.

La storia, sempre la storia, senza la quale non possiamo capire nulla di quello che ci circonda. Luca Polese Remaggi nel suo bel libro Il nemico tra di noi. La sinistra internazio­nale di fronte alle repression­i sovietiche, 19181957 (Viella, pagine 454, 38) ci racconta ad esempio quanto fu difficile, tra le due guerre, per socialdemo­cratici, anarchici e libertari raccontare la verità sul regime comunista, innanzitut­to conoscere e poi divulgare le sue malefatte, e riuscire a essere creduti. Quanto fu difficile elaborare il concetto di totalitari­smo. Specie quando, giunto Hitler al potere, le ragioni dell’antifascis­mo consigliar­ono a molti di tacere sui crimini del comunismo. L’autore ricorda le parole famose di Gaetano Salvemini nel 1935: «Non mi sentirei in diritto di protestare contro la Gestapo e contro l’ovra fascista se mi sforzassi di dimenticar­e che esiste una polizia politica sovietica». Non basta essere antifascis­ta insomma per essere un democratic­o come Salvemini voleva essere. Presumere le virtù taumaturgi­che dell’antifascis­mo da solo in quanto tale significa rendere un cattivo servizio innanzitut­to alla verità.

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