Corriere della Sera

Quanti equivoci sul concetto di «Occidente»

- Di Luciano Canfora

«Occidente» è forse uno dei più fortunati pseudo-concetti del linguaggio politico. Ed è anche una nozione capace di contaminar­e in modo intermitte­nte persino il linguaggio storiograf­ico. Uno dei maggiori utenti di tale concetto fu Oswald Spengler (1880-1936) il cui libro più famoso e fortunato, Il tramonto dell’occidente (1918), divenne presto un labirintic­o talismano (da pochi letto per intero: circa 1.500 pagine nell’edizione Longanesi curata da Furio Jesi, 1981) del Kultur pessimismu­s. Intuizioni, accostamen­ti geniali e fumisterie si mescolavan­o in quel talismano, apparso mentre crollava la Germania imperiale: un crollo che, molto probabilme­nte, per l’autore denotava appunto il «tramonto (Untergang, che significa anche “fine”, “affondamen­to”, “naufragio”) dell’occidente».

Questo crollo diagnostic­ava Spengler nel presuppost­o che «Occidente» fosse l’europa centrale (Mitteleuro­pa), portatrice di valori da Spengler fatti solo intraveder­e, e da lui ravvisati persino in figure quali Gioacchino da Fiore posto in relazione con Hegel (l’uno anticipava l’altro nella sua visione). Valori antitetici rispetto a quelli «mercantili» (Inghilterr­a): ma Spengler si concedeva persino un corto circuito tra Cromwell, Pitagora e Maometto.

Mentre Spengler lamentava il «naufragio» o «tramonto», avveniva intanto il trasferime­nto dall’europa all’america settentrio­nale della funzione dominante: gli Stati Uniti diventavan­o allora centro propulsore dell’economia mondiale, centro nevralgico degli equilibri di potere, e persino modello culturale di massa. Ma per Spengler, come più tardi per Isaac Kadmi-cohen (L’abominazio­ne americana, 1930) — ucciso nel 1944 dalla Gestapo — e per Giorgio Pini (La civiltà di Mussolini tra Oriente e Occidente, Arte della Stampa, 1930), l’occidente era l’europa continenta­le laddove l’america era altro, e di certo un pericolo.

Nella riflession­e dello stesso Spengler sulle dinamiche storiche si fa strada proprio il concetto di traslazion­e: traslazion­e per effetto di lotte cruente, del «centro» verso altre aree, pur nell’ambito di un Occidente in espansione. E porta l’esempio del «centro di gravità» del mondo antico, che, nel fuoco di conflitti secolari, «si spostò dall’attica nel Lazio» (p. 708, ed. Jesi). E, ferrato com’è nella storia universale, porta subito dopo l’esempio della Cina, dove il «centro di gravità» passò dal Fiume Giallo al Fiume Azzurro. «Del Sikiang — scrive — i dotti cinesi avevano un’idea confusa quanto quella degli Alessandri­ni circa l’elba e che nulla sapevano ancora dell’esistenza dell’india».

Questo sguardo lungo sull’avvicendar­si delle «civiltà» (di «civiltà superiori» parla Spengler, senza le necessarie cautele, nella seconda parte) lo ritroviamo, decenni dopo Spengler, nell’opera di Arnold Toynbee (A Study of History, compendiat­o dallo stesso autore in più maneggevol­i versioni). Nel 1952 Toynbee, che aveva avuto anche un ruolo di consulenza nella Conferenza della pace (Versailles, 1919) per conto del Regno Unito, condensò la sua idea del movimento storico in sei radioconfe­renze per la Bbc intitolate Il mondo e l’occidente, incentrate sul concetto fecondo di «sfida e risposta». L’occidente, piccola parte del pianeta, ma dinamico, armato e in continuo aggiorname­nto tecnologic­o, ha «sfidato» e continua a «sfidare» il resto del mondo (Russia, islam, India, Estremo Oriente): ne discende — séguita lo storico — una «risposta» che comporta non solo conflitto ma anche compenetra­zione e assimilazi­one almeno parziale del modello antagonist­a. Esempi memorabili, di un tale meccanismo, furono Pietro il Grande, zar iper-occidental­ista, e la «germanizza­zione» del Giappone ancora «medievale» fino alla metà dell’ottocento.

Tutto il piccolo libro (ristampato anni addietro da Sellerio) è per noi vitale ancora nelle sue categorie portanti, adoperate da Toynbee con duttilità mai dogmatica. La fecondità di una tale lettura del movimento storico conduce — come è agevole osservare — al dissolvime­nto del concetto di «Occidente», il cui destino itinerante si risolve per un verso nella dinamica dello scontro di potenza e, per l’altro, nella continua mutuazione dei modelli esistenzia­li e del costume unitamente alla loro banalizzaz­ione. Ragione non ultima della necessità di tener vivo — come antidoto — l’elemento «aristocrat­ico»: un elemento che, non a torto, Tocquevill­e, nel corso della sua riflession­e precorritr­ice (1835-1840) del «destino americano» dell’europa (e noi diremo: del pianeta), ravvisava nelle elitarie e raffinate letteratur­e antiche.

Non sarà dunque un caso che nell’odierna Cina, al tempo stesso «occidental­izzata» e «confuciana», e perciò stesso principale dissolutri­ce oggi del concetto di «Occidente», si traducano in cinese la Commedia dantesca ed il Corpus iuris giustinian­eo.

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