Il regime tirannico di Mussolini voleva forgiare l’«uomo nuovo»
Nascita, ascesa e fallimento di un progetto totalitario durato vent’anni Lo scopo del fascismo: allevare una stirpe guerriera votata alla conquista
«Qui è la stoltezza dello Stato liberale: che dà la libertà a tutti, anche a coloro che se ne servono per abbatterlo. Noi non daremo questa libertà». Benito Mussolini ha solo 39 anni, e nessuna esperienza di governo, quando il potere gli viene regalato da sua maestà Vittorio Emanuele III. Con la cosiddetta «marcia su Roma» del 28 ottobre 1922, lo Stato liberale (nato dal Risorgimento) viene fatto a pezzi, non sotto gli spari di una sommossa rivoluzionaria, ma dalla minaccia di un’insurrezione armata.
Basterebbe schierare l’esercito e proclamare lo stato d’assedio per fermare le camicie nere, responsabili di numerose violenze e illegalità. E invece la psicosi del pericolo rosso contagia tutti. Persino autorevoli esponenti della borghesia liberal-conservatrice come Giovanni Giolitti o Francesco Saverio Nitti, fermamente convinti che la violenza fascista sia illegale, ma pur sempre necessaria. È vero, le squadracce hanno messo a ferro e fuoco l’italia. Ma a questi «figli migliori della nazione» (all’occorrenza da coinvolgere in un governo di coalizione) il Paese deve riconoscenza.
Il Partito nazionale fascista ha il suo bacino di consenso fra gli ex arditi e i combattenti delle trincee, seguaci di un nazionalismo reducistico animato dal culto della morte. E ancora fra i giovani figli della media borghesia, dinamici, spavaldi, infatuati dall’odio, desiderosi di annientare disfattisti, socialisti e anarchici, traditori della nazione.
«Una parentesi studentesca» e in fondo «una carnevalata»: così il fascismo viene sottovalutato da intellettuali come Piero Gobetti e Gaetano Salvemini. Eppure del suo profondo disprezzo per la democrazia Mussolini non ha mai fatto mistero, come sottolinea Giacomo Matteotti, l’unica voce a denunciare l’anomalia di un governo affidato al capo di una milizia armata di partito.
Istrione nel teatro della comunicazione di massa, il Duce ha solleticato nevrosi e paure inconsce; ha creato il mito del «nemico interno» costruendo ad arte false notizie sui giornali, ha aizzato i suoi squadristi per poi presentarsi all’elettorato come leader moderato. Il salvatore della Patria, pronto a inginocchiarsi al Vittoriano, dinanzi al milite ignoto. Nel corso di tutte le sue metamorfosi (socialista rivoluzionario antimilitarista, poi interventista, antimonarchico e infine fedele seguace del re) il suo scopo è chiaro: prendere il potere e distruggere i «mestieranti della politica, schiuma infetta della società italiana».
Il fascismo è l’antipartito (scrive Gramsci nel 1921), un movimento anti-stato antilegale (secondo Luigi Salvatorelli) fondato sul culto di un capo carismatico che spazza via gli avversari per instaurare una dittatura, «sorta dalla piazza in contrapposizione al Parlamento». Ed è al Duce di questo partito armato che il re affida le chiavi dello Stato, senza capire che ci si trova dinanzi a un fenomeno nuovo della politica del Novecento. Perché il fascismo non si accontenta di controllare o reprimere le masse come qualsiasi regime autoritario, non vuole solo schiacciare il dissenso e stringere il cappio attorno al collo delle libertà: la sua pretesa è plasmare le coscienze, forgiare l’uomo nuovo, una stirpe guerriera di «virgulti superbi» votati alla grandezza della patria.
Questo è l’esperimento totalitario, la rivoluzione antropologica (illiberale e bellicista) che prende di mira antifascisti di vario orientamento, schedati, «sorvegliati speciali», mandati al carcere o al confino, perseguitati e assassinati. Il patriota-soldato è vigoroso anche nella sua capacità riproduttiva, lontano dalle anomalie dell’omosessuale. La razza italiana che ha dato l’impero al mondo deve difendersi dall’ebreo «infido che si vende per denaro», simbolo di una decadenza da estirpare. La difesa della razza, scatenata con la guerra d’etiopia nel 1935, vieta il mescolamento del sangue con donne africane (ma concede l’abuso dei loro corpi). Le leggi antiebraiche, annunciate nell’estate del 1938, sorprendono gli italiani in una generale indifferenza. «Ai quattrini l’israelita ha votato la sua vita» recita una filastrocca del «Corriere dei piccoli», con tanto di vignette satiriche, in una campagna di stampa che deve educare a pane e odio i piccoli italiani destinati a diventare soldati dell’impero, accolti al loro ritorno dalle amorevoli braccia di «spose e madri esemplari»: donne senza alcun diritto chiamate a generare la grandezza demografica della patria, confinate fra le mura domestiche, punite col carcere per il procurato aborto.
Credere e obbedire, per poi combattere. Queste le parole d’ordine che trascineranno l’italia in una guerra disastrosa accanto alla Germania nazionalsocialista. Sarà la generazione dei nati e cresciuti all’ombra del littorio a ribellarsi al potere del regime, in un atto di disobbedienza radicale che con la Resistenza saprà risollevare le sorti della patria.
Militanza
All’inizio i seguaci del Duce sono spesso ex combattenti animati dal culto della morte
Obiettivo
Il fascismo non si limita a reprimere le masse: ha l’ambizione di plasmare le coscienze