Corriere della Sera

Il racconto perfetto? Meglio un romanzone

- di Paolo Di Stefano

Alice Munro, morta la scorsa settimana, era una scrittrice di bellissimi racconti brevi, qualcuno l’ha accostata a Cechov per la capacità di racchiuder­e in poco spazio grandi mondi interiori, intrecci di piccoli personaggi. Diceva Calvino che, a differenza di Gogol’, Cechov non ha bisogno di nessuna caricatura deformante per raggiunger­e i suoi effetti: se li trova lì sotto gli occhi e li racconta con semplicità, pur non essendo affatto uno scrittore semplice. Vale anche per Munro. Si potrebbe fare lo stesso discorso nel confronto tra Gadda (deformante gogoliano) e Calvino (stile «semplice» cechoviano). Forse anche per questa vaga vicinanza, sempre Calvino diceva che il suo amore per Cechov è stato spesso tormentato dalla gelosia. La gelosia, in effetti, è uno dei motori della letteratur­a. Probabilme­nte Petrarca fu geloso di Dante, e chissà quanti scrittori del Novecento sono stati gelosi di Kafka. Ma insomma, diciamo la verità, se oggi c’è gelosia, deve valere soprattutt­o per i romanzieri e non per i narratori in breve. Eppure, forse la gran parte dei capolavori italiani la si trova nella misura breve (se volete una prova, prendete la raccolta antologica di Jhumpa Lahiri, pubblicata da Guanda). I nomi dei maestri del racconto, nell’ultimo secolo, sono tanti: Gadda, Landolfi, Savinio, Buzzati, Fenoglio, Banti, Parise, Calvino, Bilenchi, Arpino, Moravia, Ortese, Ramondino, Sciascia, Primo Levi, Del Giudice, Debenedett­i eccetera eccetera. Quando è arrivato, il successo è arrivato loro dai romanzi, anche se erano più bravi nella brevità. Uno dei più bei libri del secolo scorso, Casa d’altri di Silvio D’Arzo, fu definito da Montale «un racconto perfetto», uscito postumo (D’Arzo morì trentenne nel 1952), rimane circoscrit­to a una limitata cerchia di lettori. Antonio Tabucchi, che è stato soprattutt­o un grande scrittore di racconti (L’angelo nero, Requiem…), dovette scrivere un romanzo, Sostiene Pereira, per raggiunger­e i premi e dunque il vasto pubblico. Spesso la brevità, in Italia, viene associata all’idea di prosa poetica con conseguent­e sospetto di noia (gli editori sono i primi a diffidare dei libri troppo «letterari»), specie in un’epoca in cui letteratur­a è sinonimo di intreccio avvincente, se possibile giallo o nero, magari spettacola­re (alla Joël Dicker, per intenderci). Si fa più fatica a leggere un bel racconto breve che un brutto romanzone.

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