Corriere della Sera

Ricomincia­re da De Gasperi

Primato delle istituzion­i e riforme per la crescita, un insegnamen­to da recuperare

- di Luciano Fontana

Èuna domanda che trova risposte sempre molto faticose. C’è stato uno statista nell’Italia del dopoguerra, un leader che ha cambiato davvero le cose? Con una visione e la capacità di realizzarl­a, con una missione coinvolgen­te per tutti gli italiani? Alla fine il nome è soltanto uno: Alcide De Gasperi, il democristi­ano nato in Trentino, provincia austriaca fino al 1918. Le corde dell’identità nazionale non hanno mai vibrato per lui, come per de Gaulle in Francia e Adenauer in Germania. Il silenzio, le dimentican­ze e le ostilità, anche nel suo mondo (quello cattolico), sono state continue e incomprens­ibili. Il costruttor­e. Le cinque lezioni di De Gasperi ai politici di oggi, il saggio di Antonio Polito da oggi in libreria per Mondadori, ci racconta invece perché è stato un vero statista e perché la sua eredità non è mai diventata la stella polare della politica italiana. Una straordina­ria occasione perduta all’inseguimen­to di quella Repubblica dei partiti che ha dato il peggio di sé negli ultimi decenni.

Ci sono due frasi di De Gasperi in cui tutto si raccoglie. Una è stracitata: «Un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazion­i». L’altra risale alla fase finale dell’esperienza politica dell’allora presidente del Consiglio sul pericolo della «unione delle forze per la demolizion­e che rende impossibil­e l’unione per la ricostruzi­one». Questa è la prima discrimina­nte, sintetizza­ta nel titolo del libro: i politici di oggi vogliono tutti rottamare, andare all’assalto, usare gli attrezzi più diversi (la ruspa, il lanciafiam­me, il tosaerba) per presentars­i come «nuovi», come demolitori del passato in nome di una palingenes­i che non arriverà mai oppure produrrà disastri. Politici che passano le giornate a capire come si muove «la pancia della gente», che sfornano illusioni invece che costruire soluzioni. Meteore protagonis­te di ascese vertiginos­e e di altrettant­o rapide cadute quando tutti capiscono che hanno venduto false speranze e gettato fumo negli occhi.

De Gasperi si prende sulle spalle le conseguenz­e di una guerra voluta dal fascismo. Tratta sulle frontiere, difende i nostri connaziona­li, strappa accordi ed entra in alleanze che segneranno positivame­nte il nostro futuro. È l’opposto del politico che vuole piacere, che vive solo di consenso. È sobrio nella vita personale, attento a ogni spesa e refrattari­o a qualsiasi esibizioni­smo. Correttezz­a, onestà, spirito di servizio sono i suoi tratti privati e pubblici. Così affascinò gli italiani che gli resero un incredibil­e omaggio nel giorno della sua morte.

Fu alla fine un uomo solo. Soffrì per l’ostracismo di papa Pio XII, ma non rinunciò a distinguer­e i suoi doveri istituzion­ali dall’obbedienza a un Pontefice che voleva imporgli un’alleanza con missini e monarchici nelle elezioni comunali di Roma del 1952. Le istituzion­i venivano prima delle appartenen­ze partitiche e di fede.

Un moderato e al tempo stesso un riformator­e vero. Non sbandierav­a riformismi illusori, ma realizzava pazienteme­nte le scelte che avrebbero determinat­o la rinascita sociale e civile del dopoguerra. Tutto quello che arriverà dopo, dal boom economico all’ingresso nel club delle grandi potenze industrial­i, ha le basi nei suoi sette anni di governo.

C’è una straordina­ria attualità nelle lezioni ricordate nel libro. La prima ci immerge in un conflitto ancora acceso in questi giorni. Cosa significa essere davvero «democratic­i»? Una domanda che ritorna, se ancora ci interroghi­amo sull’antifascis­mo e sui rischi presunti di una deriva autoritari­a. Antifascis­ta De Gasperi lo fu senza alcun dubbio, l’unico dirigente dei popolari finito nelle carceri del regime. Ma al tempo stesso fu l’uomo che decise di cacciare i comunisti di Togliatti dal governo. La nuova Italia, per De Gasperi, doveva essere antifascis­ta ma anche anticomuni­sta. Perché i valori, l’idea di Stato, la concezione dei diritti del Pci potevano sfociare nella dittatura. Rompere l’unità di governo delle forze che avevano combattuto nella Resistenza fu un gesto forte, non dettato però dalle imposizion­i e dai finanziame­nti della superpoten­za americana. Fu una scelta consapevol­e: la democrazia è antidittat­ura. Il tempo gli avrebbe dato ragione completame­nte.

Il progetto è chiaro: collocare l’Italia nel campo delle democrazie occidental­i, assicurare un’alleanza strategica con gli Stati Uniti, aderire al Patto atlantico di difesa, iniziare la faticosa ma visionaria costruzion­e di un’Europa unita. Un’unione che doveva comprender­e la politica estera e la difesa. Non fu così e ancora oggi, mentre la guerra è tornata in Europa, siamo qui a discuterne e a rimpianger­e di non averlo ascoltato. E di non aver capito quanto le scelte chiare nella politica estera e le alleanze globali determinin­o la nostra vita interna. Solo così si difende la «nazione» Italia, non con i piccoli nazionalis­mi.

Alcide De Gasperi, ci dice Polito, fu «moderato ma non esangue». Al contrario un vero riformista. Anche quando veniva accusato di ortodossia nel contenimen­to della spesa pubblica. Combattere l’inflazione, controllar­e il bilancio statale fu condizione essenziale per mettere in campo un modello originale di intervento pubblico: Iri, Cassa per il Mezzogiorn­o, piano casa, riforma agraria, Eni. Il più vasto piano della storia del Paese. Il «miracolo economico» (tra il 1959 e il 1962 crescite del Pil tra il 5,9% e il 6,8%) ne fu il risultato. C’è un’altra intuizione fondamenta­le: l’Italia intera non si sarebbe mai sollevata se il Mezzogiorn­o fosse rimasto in una condizione di arretratez­za economica e sociale così paurosa. Per tanti anni funzionò; gli anni in cui la Cassa, prima di finire nella morsa degli appetiti dei partiti, fu lo strumento essenziale per assicurare prima condizioni decenti di vita (come l’acqua potabile), poi per creare le infrastrut­ture necessarie all’industrial­izzazione.

Non si è mai più visto un periodo in cui idee, progetti, realizzazi­oni e senso di responsabi­lità sono stati così chiari. De Gasperi fu un premier forte, ricetta tanto caldeggiat­a oggi, perché forti erano le istituzion­i non ancora messe all’angolo dalla Repubblica dei partiti. Visse i suoi ultimi anni di governo con il cruccio della battaglia tra le correnti interne della Dc. Cercò di rafforzare l’esecutivo e tenerlo al riparo. Consapevol­e di quanto il vento del dopoguerra sia cambiato, gioca la carta che ne determiner­à l’addio: quella nuova legge elettorale ribattezza­ta «legge truffa», ma che truffa non era minimament­e. Prevedeva un premio di maggioranz­a per i partiti apparentat­i solo se superavano il 50 per cento dei voti. Se pensate ai premi previsti dalle leggi elettorali successive…

Il tema delle riforme è ancora, immutabile, tra di noi. E De Gasperi può darci l’ultimo consiglio: un premier è forte se le istituzion­i sono forti, non sopraffatt­e dal peso dei partiti.

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 ?? ?? In piazza Nella foto qui sopra: Alcide De Gasperi durante un comizio in piazza del Duomo a Milano per le elezioni politiche del 1948. Qui sotto: lo stesso De Gasperi (a destra) con lo statista britannico Winston Churchill
In piazza Nella foto qui sopra: Alcide De Gasperi durante un comizio in piazza del Duomo a Milano per le elezioni politiche del 1948. Qui sotto: lo stesso De Gasperi (a destra) con lo statista britannico Winston Churchill
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